A marzo 2022 è uscita una serie in cui c’è una scena ambientata in riva a un lago: i bimbi sono illuminati a chiazze, da raggi che filtrano tra le foglie. La madre dei fratelli protagonisti legge un libro che le dà quasi conforto, seppur trascini in una solitudine affine a quella che prova, una solitudine materna, ma anche in un mondo infinito e in guerra.
Coincidenza volle che quel libro, in quel preciso momento, ce l’avessi a fianco. E aveva la stessa identica copertina, solo più sbiadita dal tempo. Quel libro me lo avevano prestato poche settimane prima. E anche il fatto che fosse un prestito sarebbe stato un segno, se solo avessi lasciato che il mio lato superstizioso e scaramantico prendesse il sopravvento.
Elsa Morante volle fortemente che quel libro, di cui era autrice, uscisse direttamente nella sua edizione economica. Elsa Morante voleva che gli “umili” fossero dentro e fuori la pagina, sulla prima, su quella seguente. Pure dietro le dita che sfiorano la carta. Soprattutto all’epoca, non tutti potevano permettersi un libro, ma, per quel libro, si doveva fare un’eccezione. Seppur uscì direttamente in quella versione, di sicuro qualcuno se lo passò di mano. Di sicuro, il fatto che uscì in edizione economica non bastò a farlo arrivare a tutti. E quindi qualcuno sentì il bisogno di leggerlo trovando un altro modo, di averlo tra le mani anche se non aveva sufficiente ricchezza. Forse fu naturale che molte persone se lo prestassero.
Dalla prima edizione de La Storia sono passati 50 anni. All’epoca dei fatti poco rilevanti che mi riguardano, invece, ne erano passati 48. Probabilmente, non è il mio segreto lato scaramantico a farmi pensare ancora a quella scena a quasi due anni di distanza. Probabilmente, è per via della potenza delle parole di Elsa Morante – limpide, scivolose, logoranti – e di una terribile Storia – raccontata al presente, ingombrante, inarrestabile. Ma soprattutto vera.
La Storia, un romanzo
19**. Una didascalica ed estraniante descrizione dei primi anni del ‘900, fino all’inizio vero e proprio della storia.
Gennaio 1941, Roma. L’umido, accogliente calore delle festività era stato asciugato dall’Epifania il giorno precedente. Una recluta tedesca, cresciuta così in ritardo e talmente all’improvviso da sembrare troppo giovane per arruolarsi, camminava per le strade di San Lorenzo nella solitudine più assoluta. Gunther (di lui non sapremo il cognome) stava per ripartire per l’Africa dopo una breve sosta nella città eterna, ma già solo il nome dell’ignoto continente suscitava in lui eccitazione. Anche se la malinconia lo aveva sommerso al momento di lasciare la Germania, il suo piccolo villaggio di Dachau. La stessa malinconia che lo fece ubriacare quella sera, e che lo fece fermare davanti Ida Ramundo, vedova Mancuso, maestra elementare. È lei che accompagneremo per tutto il romanzo.
Nata a Cosenza, 37 anni prima, da maestri elementari: Giuseppe Ramundo, fervente anarchico (elemento che periodicamente si ritrova ad incrociare la vita di Ida), ed Eleonora Almagià, che dal Nord Italia porterà con sé l’origine di un segreto. Ida è così impaurita dal mondo da diventare un alone: una timida bambina in un corpo che si andava sgretolando, di cui si rivelerà il lato più nascosto dell’infanzia, quello in cui sono radicati i suoi più grandi segreti. Nonché spaccati della vita precedente all’incontro – uno stupro – che la porterà a dare alla luce un bambino, Useppe: il più vivace e fragile nell’Universo, sospeso nella vita sconquassata dalle bombe come se la sua dimensione fosse un’altra; sempre allegro e irrequieto come se vedesse una fiaba nella miseria, come quando abiterà con i Mille e troverà riparo in Carulì, dopo che la sua casa non trovò riparo nell’essere nella città santa.
Prima dei Mille, Ida abitava a San Lorenzo. Con lei viveva anche il suo primo figlio, Nino: un concentrato di tutto ciò che Ida non era. Adolescente spavaldo, incostante, sfrontato, insolente, arrogante, che non riesce a stare fermo seduto dietro un banco, che lascerà la scuola, che cambierà ideali all’occorrenza, che capisce le cose quando sono ormai inconfutabili e agisce di conseguenza senza farsi troppe domande. Che sarà opportunista, che si muoverà al limite della legalità, ma in un tempo in cui il primo pensiero era rivolto alla guerra e tutto il resto cadeva in oblio. E che creerà un rapporto con Useppe viscerale, di una fraternità che abbatte qualsiasi pregiudizio dovuto al padre ignoto, che pone Ida in secondo piano, come solo a riempire le assenze di Nino.
Eppure, a ben guardare, era in realtà Useppe l’inizio e la fine di tutto: l’unico pienamente in vita in un’epopea corale che punta alla sopravvivenza. Che si muove tra una madre smarrita, trascinata fuori dalla sua bolla, e un fratello che andrà comparendo tra le molte pagine. E che poi gironzolerà tra i Mille, Carulì, gli altri. Ma tutti soggetti alla stessa sorte: quella di vite incerte e traballanti su uno sfondo che incombe e quasi inghiotte, sempre sull’orlo di portare via i personaggi.
“Massima” e “totale”
Elsa Morante pubblica La Storia nel 1974, a tre anni dall’inizio della sua stesura. In quella prima edizione, sulla quarta di copertina, si leggeva: “Elsa Morante consegna la massima esperienza della sua vita dentro la Storia quasi a spiegazione totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative”.
E nulla meglio di aggettivi come “massima” e “totale” possono descrivere il romanzo, che sembra dare e togliere senso a tutto, con una scrittura che incanta, di una dolcezza scalfita dalla realtà di una guerra immensa, dalle tragedie e dai massacri, dall’Olocausto. Seppur causa di tutto, dalla nascita di Useppe al terrore di Ida verso il suo maggior segreto, quegli eventi sono solo sfondo dei drammi di una donna e di un bambino. L’unico che con la natura si ribella alla violenza e continua a cantare con gli uccellini, a porre fiducia nei cani quando non se ne aveva per le persone, a tenere aperti gli occhi su scenari dolorosi, vedendo il cielo, le nuvole, gli alberi, i fiori. Che vive l’angoscia della morte come non vivesse la guerra e la sua precarietà. E anche quando essa finisce è come se quel passato restasse solo nel suo corpo magrolino, che lo mostra fermo nel tempo di pochi anni prima, e vive i distacchi come se la morte non facesse parte del suo naturale universo. Ma è come se tutto si accanisse su di lui, su Useppe, e su Ida che resta uno spettro e che allo stesso tempo fa uno sforzo immane, uno slancio estremo di volontà di protezione. Un’atmosfera di rassegnazione, ma anche di accettazione del limite. E sembra che tutto si ripresenti, perché è una realtà, la nostra, che in fondo ben conosciamo. Ed è come se la storia fosse accaduta per abbattere l’innocenza. Ma va avanti e continua, imperversa anche dopo averlo fatto. Perché “La Storia” è un libro che non si chiude mai davvero.
Elsa Morante invece, per regalare alla letteratura e ai lettori questo romanzo, un punto lo metterà. Nelle centinaia di pagine che lo compongono non si può non rileggere qualcosa di noi o delle generazioni che ci hanno preceduto: fatti accaduti a tutti, in modo o nell’altro, in un lato o dall’altro, trasportati dal flusso della Storia. La stessa Morante (antifascista e di madre ebrea) si rifugerà e nasconderà nel Sud del Lazio, insieme al marito, anche egli scrittore, Alberto Moravia (antifascista). Quest’esperienza non può fare a meno di riversarsi nel bagaglio di vita che ha reso possibile l’esistenza de La Storia.
La coppia vivrà una relazione ben nota e tormentata sin dai suoi albori, come Morante confiderà nelle lettere alle sue amiche. Riservata, mentre Moravia si atteggiava nei salotti dell’universo culturale romano e non solo, Elsa Morante non si integrerà mai del tutto a quel mondo.
Un applauso lontano
All’applauso del grande pubblico all’uscita de La Storia, corrisponderà la reazione incerta e l’approvazione mancata della critica. A Calvino, che comunque stimava Morante, La Storia non piacque davvero. Per lui un narratore contemporaneo non poteva “far piangere” un lettore, ma doveva farlo ridere o fargli paura. Cadere nel patetismo o suscitare la commozione non era cosa da fare all’interno di un’opera letteraria, era quasi barare, era giocare sporco usando la carta della lacrima facile, per quanto potesse essere pura.
Ci furono anni in cui Elsa Morante fu ingiustamente conosciuta più come moglie di Moravia e amica di Pasolini che per i suoi scritti. Quest’ultimo non si esimerà dal dare un suo giudizio negativo su La Storia, criticandone soprattutto la costruzione dei personaggi, che, per l’intellettuale romano, parlavano un dialetto romano poco credibile, nonché il fatto che sembrasse contenere tre libri in uno, ognuno abbastanza o poco riuscito.
Al vuoto intellettuale che si spandeva attorno alla figura di Elsa Morante a seguito della pubblicazione del romanzo, poche voci di quel mondo si discostarono dalla disapprovazione della critica. Alle eccezioni, come quella di Natalia Ginzburg o Anna Maria Ortese, vicine per conoscenza e cultura, si affiancavano però le molte mani che, se non stavano applaudendo, era perché stringevano La Storia, comprata a circa 2000 lire. Persone per cui piangere leggendo, il successo e la qualità letteraria non entravano in contraddizione. Persone per cui restare incollati alla carta, implorare “Useppe, non morire”, non sviliva la scrittura quasi magica di Elsa Morante. E per cui il fatto che il romanzo non si posizionasse in modo netto nel panorama politico italiano, abbracciando tutti, toccando la gente fin nelle ossa – un altro punto che la criticherà non perdonerà a Morante – non era disonorevole, non era ipocrisia. La Storia aveva colpito tutti nel grande pubblico e, per tutti, i lividi danno dolore.
Raccontare l’orrore, scandirlo con molti flashback e digressioni, per loro non voleva dire “barare suscitando le lacrime”. L’effetto di questa visione fu nel numero, enorme di questi e quei tempi, di copie vendute: oltre 800mila in un anno. Lo scandalo editoriale de La Storia andava avanti da pochi mesi e le preoccupazioni dell’allora direttore commerciale Einaudi, Roberto Cerati, erano evaporate in poco tempo. Una quantità di volumi equivalenti a sei volte la prima tiratura – 100.000 copie con cui «ci ripagheremo sì e no la carta» – fu venduta nell’attimo di cinque mesi.
Un applauso, anche se lontano dalla figura tendenzialmente schiva e riserva di Morante, che è riuscita, nelle perturbazioni dell’animo suo e dei suoi personaggi, a immortalare La Storia, in un romanzo-scandalo destinato a durare altri diecimila anni.
Autore
Nata tra i monti Lepini, non è che la montagna mi piaccia poi così tanto. Leggo, scrivo, arrivo sempre in ritardo ma cerco di compensare con l'impegno che metto nelle cose. Se potessi vivrei in viaggio, nel frattempo mi accontento di immaginarmi giornalista, una di quelli che raccontano mondi lontani. Che poi così lontani non sono.