110 anni fa moriva a Bologna Giovanni Pascoli, punto di snodo fondamentale per la poesia fra l’Ottocento e il Novecento. Con i suoi aspetti più tradizionalisti e fedeli alla classicità, ha saputo portare anche un grande respiro di innovazione nella poetica italiana: una nuova concezione di poesia. Nel 1897, sulla rivista fiorentina il Marzocco, Pascoli pubblica il discorso programmatico riguardo alla sua poetica: quella del fanciullino. Figura umile, creativa e soprattutto presente in ognuno di noi, viene descritta per la prima volta restituendogli una voce, quella che solo la letteratura può dare.
È dentro noi un fanciullino. Egli è quello che parla agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle; è quello che piange e ride senza perché. Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta.
L’arte di sapersi meravigliare
Nasce nel segno dell’innocenza e nonostante la frenesia della vita adulta, rimane vivo all’interno di ogni individuo: il fanciullino sa meravigliarsi. Guarda al mondo con gli occhi curiosi di chi non è mai stato sporcato dagli inganni dell’esistenza e riesce a rendere poetico un paesaggio qualunque, un cielo stellato, un momento sfuggente. Praticamente ognuno di noi al quarto spritz della serata con la canzone di sottofondo giusta. Eppure la vita reale è un accumularsi di affanni, preoccupazioni, impegni e scadenze, che soffocano e schiacciano prepotentemente quella vocina labile che in noi non muore. Pascoli, forte delle idee romantiche che vedevano nell’infanzia il periodo più puro, ancora ci crede. Non importa della rivoluzione, della crisi, dell’instabilità e di un dolore – il suo nido distrutto, ad esempio, ricorrente in tutta la lirica -, perché tutto viene percepito come fosse la prima volta, la realtà diviene un continuo stimolo per sorprendersi ancora e chi si meraviglia ci piglia.
La grandezza delle piccole cose
La caratteristica fondamentale del fanciullino rispetto a qualsiasi altro individuo inteso nella sua maturità, è l’intuizione. Dal verbo latino intueri, letteralmente “guardar dentro”, questo atto scavalca ogni logica: chi intuisce qualcosa, la sente senza passare per alcun ragionamento (si ama con la pancia, solo dopo si arriva alla mente – ed è per questo che abbiamo la gastrite, ma questo è un altro discorso). L’uomo dunque percepisce ancor prima di razionalizzare, ed accoglie dentro di sé un sentimento prima ancora di riuscire ad elaborarlo. Attraverso gli occhi del fanciullino si è in grado di cogliere in maniera diretta, autentica e lineare quel che invece passerebbe inosservato in età adulta. La percezione e la sensazione immediata prendono il posto del mero calcolo e della forzatura razionale, e si ribaltano così le prospettive:
E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare
Il poeta non ha età
In ognuno di noi si presenta dunque questa dimensione potenziale: a volte più emarginata, altre volte più esplicita. Quel grande serbatoio di illusioni, sentimenti, vaghezze e curiosità che ci fanno sentire inesperti, spaesati e talvolta piccoli. Fanciulli, per l’appunto, che non sempre sanno identificare quel che provano e lo vivono di pancia, nella sua totalità positiva o negativa che sia. L’autore stesso cita nella sua prosa che «non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano». Il riferimento è al Fedone di Platone, dialogo in cui Socrate sta per bere il veleno che lo ucciderà e, aprendo una discussione sul tema della morte, si rivolge saggiamente ai suoi discepoli. Fra questi il nostro Cebete, che sostiene riguardo al timore di perdere la vita, che «forse c’è anche dentro di noi un fanciullino che ha paura di queste cose». Ma Pascoli in realtà, oltre ai soli brividi che menziona il personaggio greco, trova molto di più fra le emozioni in grado di essere percepite: lagrime, per l’aspetto negativo, e tripudi, per i momenti invece di gioia. Un grande mondo interiore, dunque, che solo il poeta ha il privilegio di poter esternare.
Che la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale. E tu non hai mica ragionato, per rivelare a me il tuo fine.
Il poeta per Pascoli ha la sublime capacità di cogliere a fondo queste piccole cose, saperle custodire ma anche esprimere, percepirle nella loro naturalezza ma scavare nella loro profondità. E’ un vate anche lui, nel suo mondo umile, perché sa porsi come guida morale e sa delineare la complessa rete di legami che costituiscono la realtà. Nella cultura latina il vate indicava il profeta, perché era usanza che gli indovini si esprimessero in versi. Ecco il nostro poeta, che ci riporta a un tempo in cui nulla era macchiato dall’esperienza, in cui ogni cosa si presentava nella sua purezza, in cui il mondo era ancora incontaminato. Perciò trionfa l’espressione libera, in versi, con la cura per il particolare, per i suoni, le analogie, il simbolismo.
Ed ecco il valore evocativo della parola, e ancora una volta l’unico strumento in grado di salvarci dalla decadenza di un mondo che va sempre troppo veloce: la poesia.
Autore
Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.