Cent’anni dell’Ulisse di Joyce: un secolo di consapevolezza

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Quante volte ci siamo soffermati per qualche minuto a riflettere per poi scoprire che il tempo trascorso fosse l’equivalente di un’eternità? Quante volte invece non abbiamo fatto caso al mondo intorno che freneticamente avanzava, alle dinamiche che ci hanno circondato, ad azioni che venivano compiute veloci, perché persi in un ragionamento? Quante giornate passate lente perché incastrati in un ricordo, ripercorrendo quei momenti lì, quando andava tutto a gonfie vele? Perché siamo apparsi per qualche attimo spenti o assenti secondo il giudizio di un occhio esterno, mentre affogavamo in un pensiero che più che a tu per tu era un io con io?

Perché abbiamo necessità di dialogo. Perché dentro di noi, così come in una normale home di instagram, navigano milioni di contenuti e immagini, sorretti da un enorme flusso di pensieri che rischia di esplodere se non buttato fuori.

Perché spesso combattiamo con lati di noi che non vogliamo si palesino, perché scomodi, eccessivi, impulsivi e dannosi, ma che improvvisamente, magari anche nella situazione più controversa o delicata, decidono di prendere parola. Ed ecco che una realtà intima, silenziosa, nascosta nel nostro inconscio, si smuove prepotente e ha bisogno di manifestarsi in una figura che non rappresenta un eroe mitico ma un uomo comune, un volto fra i tanti, proprio come i nostri: Ulisse. L’Ulisse di James Joyce.

700 pagine per raccontare un giorno solo. Uno: il 16 giugno 1904

Cento anni fa James Joyce pubblicava l’Ulisse, il romanzo che segnò una vera e propria rivoluzione, tanto da divenire oggetto di censura perfino nella stessa Irlanda, patria dell’autore.

Un mondo dentro un’opera, un insieme di concezioni che sancivano il divorzio con la letteratura dell’Ottocento per aprirsi alla modernità, al disordine, alla soggettività, all’incertezza. 700 pagine per raccontare un giorno solo. Uno: il 16 giugno 1904.

La giornata di un uomo qualunque, un ordinary man, Leopold Bloom, scandita in 18 episodi che ricalcano l’Odissea di Omero. Lavoratore, timido, speranzoso di fare nuove conoscenze, riflette e ragiona nello spazio stretto di una giornata, in cui numerose scene si susseguono al passo con i pensieri. Bloom dovrà scegliere dove pranzare, e il lettore sarà partecipe della sua indecisione così come della scelta finale di un pub; ancora nel pomeriggio entrerà al Museo Nazionale, e non vedremo solo l’uomo muoversi estasiato fra le sculture greche, ma sapremo che ogni dettaglio di quei corpi femminili lo riporta a Molly, sua moglie, con cui il matrimonio sembra essere giunto al capolinea.

Eppure molto c’è da leggere per quanto si tratti di 24 ore. Come è possibile? La rivoluzione di Joyce è proprio qui: l’arco temporale che si ferma, l’analisi dei momenti come spazi di eterna riflessione e perciò l’abilità di dar voce a qualcosa che possa alleggerirci, liberarci, farci comprendere fino in fondo: la coscienza.

Ritratto di Leopold Bloom eseguito da Joyce

Nasce il romanzo moderno, capace di togliere la maschera al personaggio e lasciarlo nudo, nel suo inconscio, a prendere parola senza filtro e senza freno. Il monologo interiore diventa il vero protagonista della storia, rovesciando sul testo un flusso di pensieri che corre più veloce del parlato, che è figlio del caos, della paura, delle sensazioni, della confusione. Un po’ come la trap. Ed ecco che spariscono i segni forti di interpunzione, traballano le virgole, mentre a gamba tesa vengono inserite allusioni, simboli ed espressioni del tutto nuovi, frutto di una scrittura di getto.

L’impulso si fa parola e per la prima volta assistiamo ad un ragionamento che spesso temiamo di fare ad alta voce: sto analizzando, sto ricordando, temo la malinconia, so soffrire anch’io, come ci mostra nel suo monologo Molly Bloom, moglie del protagonista e parodia della Penelope di Omero:

[..] e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio sì

Molly dice sì. Si riguarda indietro e dice sì al suo passato, alla sua esistenza, ai suoi desideri più nascosti. È nel suo letto al termine della giornata eppure la mente viaggia ancora senza sosta: i pensieri riguardo al marito, i suoi amanti, un scenario della sua Gibilterra. Libera, la sua scrittura che scorre fluida senza imbarazzo o stanchezza, libera, Molly che finalmente si accetta e guarda dentro come una Penelope moderna che urla Sì a quel che è. Un elogio alla scrittura di pancia, alla mente umana capace di innumerevoli salti e passaggi tra situazioni.

dal film “Ulysses”, 1967, diretto da Joseph Strick

Non a caso i capitoli finali vengono definiti fra i più complessi dell’intera opera anche dallo stesso Joyce, che confessò di aver trovato molta difficoltà nella stesura, o per l’artista Matisse, che illustrò un’importante edizione senza sfogliarne neanche una pagina. Non a caso capita di scorrere recensioni che lamentano quanto sia difficile da leggere o insostenibile dopo qualche pagina data la complessità, la mancanza di rigore e di ordine nel racconto. Tipo buttarsi in una piazza durante una manifestazione e cercare di rispettare la fila. O aspettarsi che ci sia l’organizzatore dell’evento a dare linee guida per tutta la giornata. Non è così.

Non possiamo aspettarci linearità nel leggere il flusso di coscienza, perché questa linearità è assente nella mente umana. Perché siamo intricati, svincolati da punti e virgole, perché siamo un getto di impulsi immediati che zompettano fra una scena e l’altra, lontana e vicina, significativa o meno, che ritorna senza il tempo di metterla a posto. Perché Joyce l’aveva capito prima ancora di tanti – e purtroppo, attualmente, ancora non abbastanza- che dare voce a quel che teniamo dentro non è solo coraggioso ma anche liberatorio. E che forse leggere le paranoie mattutine di Leopold Bloom ci può far sentire meno soli, meno pazzi, meno scemi, e sicuramente più umani.

Perché ogni giorno della nostra vita in fondo è una piccola Odissea e la nostra esistenza non è altro che una lunga chiacchierata con noi stessi; e questo, cento anni fa, Joyce lo aveva già capito.

Autore

Aurora Rossi

Aurora Rossi

Autrice

Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.

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