Un’intervista a Francesca Albanese a due anni dall’inizio del suo mandato

Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati

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Dal 1 maggio 2022 Francesca Albanese è Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. Dottoressa in Giurisprudenza, si è poi specializzata in diritti umani presso la School of Oriental and African Studies. Solo poche settimane fa ha presentato al Palazzo delle Nazioni a Ginevra il suo nuovo rapporto “Anatomy of a Genocide”, in cui analizza le componenti oggettive del massacro dei palestinesi di cui è responsabile Israele, evidenziando gli elementi che portano alla definizione dell’operazione come un genocidio

Questa è un’intervista a due anni dall’inizio del suo mandato alle Nazioni Unite, durante il momento più difficile per la storia della Palestina contemporanea.

Come testata giornalistica abbiamo seguito la questione palestinese già prima del 7 ottobre, e dopo l’attacco di Hamas abbiamo riscontrato che la nuova generazione è forse la più pronta a discutere di Israele e Palestina, senza ricadere nelle urla “dei grandi”. Lei riscontra altrettanto? Crede che la Generazione z sia una di quelle più sensibili al tema?

«Onestamente un anno fa non avrei potuto risponderti. Vivo fuori dall’Italia da più di 20 anni e non parlando per luoghi comuni non potevo avere una piena consapevolezza di cosa pensasse la generazione nata dopo il 1995 della questione palestinese. Però avevo la sensazione che fosse una generazione con un contesto poco favorevole a comprendere per davvero cosa stesse accadendo e cosa è accaduto dall’altra parte del Mediterraneo per così tanto tempo. Nel senso che siete cresciuti in una fase di oscurantismo ideologico sul tema, mentre la mia generazione (che viveva ancora gli avvenimenti della rivoluzione culturale del ’68 in poi e la decolonizzazione) era consapevole che la Palestina a livello politico fosse molto vicina all’Italia. Penso alla buonanima di Sandro Pertini, che dopo i mondiali dell’82 vinti da noi si recò a Beirut a portare la coppa simbolicamente ad Arafat, che dagli States ed altre nazioni veniva raffigurato come un terrorista.

L’ambiente prima, quindi, era differente. Ma dopo il 7 ottobre e la richiesta di molti giovani italiani rispetto ad una domanda di conoscenza di Gaza, della West Bank e di quella parte di mondo ecco sì, riscontro che la vostra generazione è diversa da quella precedente. Avete una capacità di vedere il mondo in modo orizzontale, e non verticale.

Siete fluidi, vivaci, il che vi rende più pronti a captare certe questioni. Ecco perché siete i più grandi promotori in antitesi al genocidio che sta avvenendo e mi dispiace delle mazzate che state prendendo. Ma state risvegliando la coscienza di un paese ormai da tempo addormentato».

Il partito di Hamas non nasce dal niente. Nel corso degli anni ha ricevuto ingenti risorse dallo stesso governo Israeliano e ci sono state varie dichiarazioni a riguardo di Netanyahu. Queste sono alcune sue parole del marzo 2019 alla Knesset «chiunque voglia contrastare l’istituzione di uno Stato palestinese deve sostenere Hamas e il trasferimento di risorse verso Hamas». Si può dire che è un Frankenstein che si è rivoltato contro lo stesso creatore? 

«Qualcosa è andato storto nella logica di Netanyahu, che era già tanto storta di per sé. Vivere sotto un regime di apartheid è un affronto dal punto di vista giuridico del diritto all’autodeterminazione. Ciò che rimane della Palestina storica è stato frammentato e distrutto da Israele.

Le forze partitiche maggioritarie palestinesi sono state in parte, appunto, influenzate dal governo israeliano (ma è anche dal 2005 che non si vota e non si può effettivamente sapere se Hamas e Al Fatah siano ancora le forze maggioritarie). I palestinesi non hanno possibilità di potersi quindi esprimere politicamente e il Likud, i partiti vicini ad esso e quella parte di mentalità israeliana, hanno scelto bene con chi avere intermediazioni e chi legittimare come interlocutore politico. Depotenziando l’autorità palestinese si realizzano le condizioni affinché non ci possa essere uno Stato indipendente e quindi protagonisti diversi e delegittimati dall’opinione internazionale».

Lei e suoi predecessori nel ruolo di Special Rapporteur sui territori palestinesi occupati siete stati spesso vittima di attacchi mediatici. Oltre al suo, uno dei casi più noti è la vicenda Lynk-UN Watch. Lei che spiegazione si è data nei confronti di questo “bullismo” che da anni viene rivolto a chi ricopre il suo ruolo?

«Questo mandato ha attirato le ire di figure vicine al governo israeliano fin dal 2007, specie nel momento in cui le critiche che venivano alzate dal Relatore speciale ONU diventavano maggiormente note e quindi d’impatto sulla comunità internazionale nel descrivere la situazione di apartheid israeliano. Nel 2005 John Dugard, l’allora relatore speciale ONU sui territori palestinesi occupati, per primo descrisse le azioni di Israele nella Cisgiordania e a Gaza come apartheid e da lì una serie di attacchi verso chi deteneva il mandato.

Le tecniche per veicolare le critiche e le critiche stesse sono sempre state puntuali nel denigrare le parole e le azioni del relatore speciale ONU. Richard Falk, relatore Onu dal 2008 al 2014, proprio perché si definiva un giurista militante portò avanti una battaglia d’informazione su più piani – accademicamente e non solo – lavoro che fu poi portato avanti da Michael Lynk, che mostrava in modo articolato e strutturato come Israele si stesse macchiando di crimini di guerra anche tramite le colonie illegali, le responsabilità di tutti quegli enti statali e non solo che appoggiavano questo sistema (Usa, FMI, Stati Onu). Io ho continuato su questa strada e la continuerò.


Le accuse sono pesanti, i rischi sono importanti, ma sono comunque degli strumenti per sviare dal contenuto dell’analisi che io ora porto e i miei relatori prima portavano. In Italia invece di discutere dei topic che le nostre analisi fanno emergere, discutono sulla mia persona e di quanto sia “controversa”.

Sarei controversa perché Israele dice che sono antisemita? O che supporto il terrorismo? E ciò vale solo in certi ambienti, perché per il resto sento un grande interesse nei miei confronti e nell’approccio divulgativo che cerco di portare sulla questione palestinese».

Leggevo l’altro giorno un suo post in cui diceva che le interviste sulle reti italiane sono le più tristi a cui lei abbia partecipato in questi due anni di incarico, proprio per la faziosità e il clima quasi da stadio che si viene a creare tra gli opinionisti dei talk. Si trova peggio in TV rispetto ai social, da questo punto di vista? È solo una questione dello stato della TV italiana o è generale?

«A me rattrista, rammarica molto lo stato della televisione italiana. Ci sono programmi sulla rete nazionale che invece di fare informazione prediligono il caos e l’opinionismo. Si parla di un tema? Si invitano ospiti che non hanno competenze tecniche di sorta su quel tema. Abbiamo fior fiori di esperti di settore accademico e non solo, ma non c’è interesse nel creare un’informazione tecnica e nell’ascoltarli.

Si invitano i soliti giornalisti e politici come se fossero dei tuttologi – che però non possono ovviamente sapere tutto. 

La cosa che mi dispiace ancora di più e la vera mancanza è l’assenza di decoro: la calunnia, l’insulto, le urla e tutto ciò, per me è estraneo. Ho usato l’aggettivo triste perché è davvero triste questa situazione. Anni fa non era così, oggi si fa baldoria sulla televisione. Ero stata anche messa in guardia: ero stata avvertita che la TV italiana fosse più simile ad un pollaio che ad un talk: posso dire che davvero è un pollaio. 

Per fare un esempio giovedì 2 maggio in un noto programma tv italiano hanno detto che mio marito è pagato da Hamas. Che ci sono indagini e contratto: questa è fandonia pura! Come si fa a mentire sapendo di mentire? Mio marito non ha mai lavorato per l’autorità palestinese, ha lavorato per le Nazioni Unite 3-6 mesi, prestando servizio in Palestina dando supporto tecnico. Il mio lavoro, come il suo, era ed è gratuito e sono davvero un mucchio di fandonie queste dicerie senza senso.

Il web permette maggior libertà e scelta di fruizioni di contenuti, ma anche quello è problematico proprio per questo sistema di silenziamento per controllare il dibattito: soprattutto su ciò che può essere o meno un contenuto antisemita – anche questa dicitura si sta allargando sempre di più per poter attaccare qualsiasi soggetto di antisemitismo. Da qui lo shadowban, sospensione di account ed altro.

Ma in nessun paese, generalmente, c’è una televisione così pessima come in Italia. Io, che ho un ruolo istituzionale e sono stata ricevuta con grande rispetto all’estero anche da chi non condivide il mio pensiero e che sono una figura tecnica delle Nazioni Unite, posso dire che la stampa in Italia non è libera, si respira davvero un’aria di censura. Anche in paesi dove ho avuto esperienze poco felici come l’Australia i giornalisti mi hanno sempre dato spazio, qui no.

Per fare un esempio: da quando ho pubblicato il rapporto “anatomia di un genocidio” sono stata intervistata da mezzo mondo sui contenuti e del perché della mia visione e analisi. In Italia credo non sia mai capitato da un mese abbondante, forse solo una trasmissione. 

Ma la cosa meravigliosa, e lo voglio dire anche per spezzare l’atmosfera, è l’affetto che mi danno i giovani quando faccio le conferenze o le lezioni sul tema. Provo quasi una vergogna nel ricevere tutto questo calore umano, neanche fossi una popstar». 

La violenza genera violenza: come possiamo immaginarci un futuro di convivenza tra i due popoli dopo tutto ciò? i bambini palestinesi cresceranno con storie di guerra e di massacri da parte di Israele ed Israele stessa, dopo il 7 ottobre, vivrà ancora di più come terrorizzata. Non sono le basi migliori per la pace e per una soluzione a due Stati. C’è un modo per superare questo odio ormai ben radicato o prevarranno sempre i sentimenti di vendetta sull’altro?

«Io conosco la storia del popolo palestinese abbastanza da vicino. Sono 20 anni che studio gli effetti del colonialismo britannico prima e degli insediamenti israeliani illegali ora sulla popolazione palestinese, che quindi da più di cento anni subisce un martirio su vari livelli. Quello che accade oggi è violento e crudele e l’obiettivo finale, per me, da parte del governo israeliano è svuotare Gaza.

La distruzione dell’identità di un popolo passa per varie cose: l’eliminazione dei luoghi di culto, di aggregazione culturale, fino ad arrivare alla pulizia etnica e al genocidio.

Ma nel 1948, con la Nakba, era già successo questo in modo altrettanto crudele. Le storie dei rifugiati e profughi di più di 70 anni sono ormai simili a quelle dei nuovi rifugiati e profughi palestinesi di oggi, figli e nipoti di quelli della grande catastrofe di allora. Ed in Occidente confrontare e mettere sullo stesso piano Nakba e Olocausto è difficile: c’è una forte matrice razzista alla base. C’è una bassa conoscenza di ciò che è stata la Nakba: lo smembramento vero e proprio di ciò che era un luogo culturale e sociale che apparteneva ad un popolo. Una società finita per diventare nomade. 

Tutto ciò creerà odio? Per la conoscenza che ho della Palestina, non credo. Hanno una forte matrice spirituale e il loro forte legame all’Islam li aiuta. Io sono una persona laica – se non atea, perché non credo: li invidio quasi, perché nonostante l’odio che hanno subito cercano di essere positivi per il volere di Dio. Ciò per me è quasi folle.

Il trauma è un qualcosa che tocca sia il fisico, la mente e la spiritualità. I bambini sempre più aggressivi e le donne sempre più depresse sono sintomi di un popolo che va sempre più aiutato nel suo processo di cura rispetto a ciò che ha subito e che sta subendo.

Gli israeliani, da decenni, vengono indottrinati alla disumanizzazione del palestinese. Studiosi israeliani, come la filologa Nurit Peled, descrivono come la rappresentazione degli arabi nei libri di scuola israeliani è razzista. Affermano che la loro unica rappresentazione è come “rifugiati, contadini primitivi e terroristi”, sostenendo che in “centinaia e centinaia” di libri, nessuna fotografia raffigurava un arabo come una “persona normale”. C’è una predisposizione ad avere paura del palestinese, più che educazione all’odio. 

E dalla paura sì, è possibile che si generi odio. Non dico che i palestinesi non possano covare odio nei confronti degli israeliani, perché dopo tutto quello che hanno subito sarebbe pure logico.

Come può avvenire la conciliazione? Serve innanzitutto smantellare l’apartheid di Israele. Lo spazio tra questi due popoli va riavvicinato. Quello che è successo il 7 ottobre è gravissimo, un massacro audace la cui brutalità ha squarciato la comunità israeliana e la sua bolla perché in molti, Hamas o non, hanno commesso crimini efferati, senza sé e senza ma. 

Si può immaginare un futuro di pace ma solo attraverso azioni di distensione della guerra, di creazione di processi pacifici lunghi per una coesistenza in quella terra martoriata».

Ci pare scontato ma glielo chiediamo lo stesso: siamo ad un punto di non ritorno? Questo punto di non ritorno ormai è stato superato? 

«Ci sono vari punti di non ritorno, ma secondo me con il 7 ottobre siamo arrivati in una zona nebbiosa: tanti dei progressi fatti nella società israeliana si sono persi o è caduta la maschera per cui ora gli estremismi governano quella comunità.

Adesso è necessario prendere misure urgenti contro Israele affinché cessi le sue azioni militari genocidiarie a Gaza e bisogna rivedere gli accordi con lo Stato israeliano. La passività che i vari Stati hanno nei confronti di Israele mi rammarica molto, perché il silenzio, il non fare qualcosa per fermare un massacro è complicità».

Autori

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

Letizia Sala

Letizia Sala

Autrice

amante della satira e delle percentuali elettorali (se le due cose sono combinate: meglio), nasco nella primavera 2003 alle porte di Monza. qualche km più in là, Bush stava decidendo di invadere l’Iraq. non so nulla di oroscopo ma se mi state leggendo proprio qua qualcosa vorrà pur dire.

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