Sapore è Sapere: come la lingua rivela che mangiare vuol dire conoscere

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Cosa vuol dire sapere? Perché utilizziamo la stessa parola per indicare la conoscenza e il sapore?
Che legame esiste tra conoscenza e gusto? Per cercare di rispondere a queste domande basta osservare i comportamenti umani interpellando il più eloquente dei reperti archeologici: il nostro linguaggio.

Pensiamo all’italiano: possiamo dire «quella persona sa molte cose», e «questo vino sa di tappo», in entrambi i casi utilizziamo il verbo sapere, ma a cosa dobbiamo questa apparente polisemia? La forma latina da cui deriva il verbo italiano in questione è sapĕre che vuol dire proprio “avere il gusto di”, “avere il sapore”. Il significato del verbo si estende sin dall’epoca arcaica a indicare “avere capacità di discernimento”, “essere sapiente”, “conoscere”. Semplice coincidenza? Non proprio: spesso gli slittamenti di significato nelle lingue sono dovuti a processi metaforici da un ambito concreto (in questo caso l’atto di mangiare e gustare) a un ambito astratto (fare esperienza, conoscere); pensiamo a espressioni del tipo “assaporare la vittoria” o “avere un assaggio di libertà”. Ma la questione va ben oltre la metafora.

Sono molti i trattati di filosofia medievale che, a partire dalle teorie aristoteliche sui cinque sensi, riconoscono il gusto come il senso più infallibile e, di conseguenza, il più affidabile strumento conoscitivo della realtà esterna. Nel trattato anonimo di XIII secolo intitolato Summa de saporibus, l’autore analizza le facoltà e i vizi dei sensi umani eleggendo come migliore proprio il gusto; chi scrive, infatti, afferma che l’apparato gustativo è in grado di raggiungere tutte le proprietà delle cose e di mescolarsi ad esse, dal momento che la lingua, stando al testo, disporrebbe di sei lacerti (che potremmo definire connettori nervosi) che la collegano al cervello e ci permettono di comprendere completamente l’essenza della cosa ingerita. Il gusto è, infatti, il senso che consente di ‘appropriarsi’ dell’oggetto assaggiato integralmente: non solo se ne assapora il gusto, ma letteralmente si comprende, nel senso latino del termine (cum + prĕhendo): lo contengo, lo racchiudo, lo capisco. 

Come riflette il professor Montanari nel suo saggio Gusti del Medioevo, «l’atto del mangiare è quello che produce il contatto, che mette in azione il gusto facendogli riconoscere il sapore e, dietro di quello, l’essenza della cosa. Il sapore rivela quell’essenza e diventa perciò uno strumento di conoscenza». Se poi pensiamo che la radice indoeuropea originaria da cui ha luogo la parola latina sapĕre “avere sapore di” e sapor “sapore” è la stessa da cui deriva il latino sapa “succo”, le parole di Montanari risultano ancora più chiare: il sapore non è altro se non l’essenza più intima e profonda di una cosa, ne è il succo, il concentrato più incorruttibile, e grazie al senso del gusto siamo in grado di distinguere quell’essenza, di assimilarla e dunque conoscerla.

Se non basta questo a dimostrare che il binomio sapere e sapore rappresenta molto di più che una figura etimologica, un vezzo stilistico o una metafora letteraria, ma che è qualcosa di radicato nei nostri schemi conoscitivi primordiali, ci basti pensare alla più istintiva e primitiva forma umana che possiamo osservare: i neonati.

I bambini nelle prime fasi dello sviluppo portano alla bocca e tentano di ‘assaggiare’ qualsiasi oggetto (commestibile e non) in modo da conoscerlo e memorizzarlo tramite il processo, definito dalla psicologa statunitense Eleanor Gibson, exploratory mouthing. Già secondo Aristotele, infatti, il gusto prevede un processo tattile innescato dal contatto tra lingua e corpo estraneo, una sorta di estensione del tatto, un tentativo di potenziamento sensoriale. Come nei primi stadi della vita di un singolo individuo, così doveva essere anche al primo stadio dell’umanità. Assaggiare qualcosa significa farla nostra attraverso l’esperienza, letteralmente ‘metabolizzarla’ e renderla parte del nostro patrimonio conoscitivo e culturale. 

La conoscenza attraverso l’ingestione, e il discernimento attraverso il gusto rappresentano la più ancestrale e intima forma di conoscenza negli esseri umani. L’atto di assaggiare qualcosa e sentirne il sapore vuol dire valutarla, provarla, discernere un elemento da un altro, stabilire il benevolo e il dannoso. Di conseguenza, questo processo diviene necessario ogni qualvolta si è chiamati a fare una scelta. Non a caso la tradizione cristiana taccia l’assaggio dei frutti dell’albero della Conoscenza del Bene e del Male da parte di Eva come peccato originale, un peccato di conoscenza e di consapevolezza, senza la quale l’umanità non sarebbe stata in grado di distinguere e valutare la realtà, e dunque, di fare delle scelte

L’estensione dal concetto di assaggio a quello di scelta rappresenta un normale processo logico incarnato nella nostra fisiologia: come affermano le teorie cognitiviste, infatti, i processi cognitivi e gli schemi mentali degli esseri umani sono basati sull’esperienza corporea e sull’approccio fisico al mondo esterno: se ho assaggiato qualcosa ne conosco il sapore e l’effetto (nocivo o benefico), dunque, sono in grado di riconoscere quella cosa e di sceglierla o evitarla.

A dimostrazione di questo normale processo logico vengono in nostro soccorso, ancora una volta, le parole.

Pensiamo al verbo italiano gustare, al verbo tedesco kosten “assaggiare”, “provare”, “sperimentare” e al verbo inglese choose “scegliere”, cos’hanno in comune? Di nuovo, l’etimologia. L’inglese, il tedesco e l’italiano, infatti, sono lingue indoeuropee e condividono uno stadio linguistico originario (il protoindoeuropeo, per l’appunto); stando ai dizionari etimologici, questi verbi si sarebbero sviluppati a partire da una radice comune (*ĝeus-) che vorrebbe proprio dire “assaggiare“!

Questa archeologia del pensiero che è l’etimologia ci fornisce una prova del fatto che mangiare è la nostra prima e fondamentale fonte di conoscenza. È a partire dall’atto di assaporare e ingerire fisicamente che sviluppiamo e concettualizziamo l’idea di provare, fare esperienza, conoscere e scegliere. E il linguaggio, espressione di questi schemi mentali, ci aiuta a ricostruirne la logica, una logica che è dettata dal corpo e dalle sue esperienze.

In una società in cui il retaggio culturale di stampo occidentale e cattolico ha stabilito una gerarchia dei sensi, per cui quelli che prevedono un contatto diretto con l’esterno come il tatto e il gusto sono considerati impuri, sgradevoli e peccaminosi, veniamo abituati a vivere con repulsione e senso di colpa il naturale atto del mangiare, non solo per necessità ma per conoscenza, curiosità, tentazione, noia, ribellione e piacere; tutti i motivi per cui Eva morse la mela e che rappresentano in fin dei conti l’essenza dell’essere umano. Dire che mangiare significa conoscere (letteralmente) è rivoluzionario perché vorrebbe dire che conosciamo, pensiamo e ragioniamo solo passando per il corpo.

Autore

Elena Tronti

Elena Tronti

Autrice

Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.

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