San Damiano o del perduto amor

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La contraddizione di questo fulminante oggetto film o documentario come si vuole definirlo è che toglie il fiato allo spettatore. Un’opera prima che sta vivendo di passaparola, che scala il box office italiano salendo nelle prime dieci posizioni, file fuori dai cinema di tutta Italia.

Le vite, le speranze, le disperazioni degli emarginati della Stazione Termini di Roma. Ma San Damiano è molto di più, ci scava dentro nelle nostre paure e contraddizioni, la prima di queste e che ignoriamo i disperati sui marciapiedi e poi paghiamo un biglietto al cinema per ascoltarli per un’ora e mezza. Non ha effetti speciali il film, eppure ci si chiede come siano riusciti a girarlo Cifuentes e Sassoli, ma anche perché. In questa intervista ci immergiamo in San Damiano, ma forse come canta Bennato, capiremo tutto quando saremo grandi. 

Perché la gente sta facendo la fila per vedere San Damiano, che cosa spinge a inoltrarsi nella vita disperata degli abitanti intorno alla stazione Termini di Roma? 

“Mi piace pensare che il pubblico senta la sincerità e la spontaneità con cui è stato fatto il film. Non c’è il formalismo del documentario, non c’è la distanza scientifica dello psichiatra o del sociologo, non c’è alcuna gerarchia. L’immersione è totale, incosciente, istintiva, sbagliata per alcuni.

Facciamo un passo indietro. Noi stavamo lavorando a un film di finzione che aveva come protagonista una ragazza senzatetto che abitava a Termini. Dopo un anno di volontariato, per ricerca, decidiamo di dormire una notte alla stazione. In quell’occasione incontriamo Damiano, arrivato a Roma il giorno prima. Quell’incontro ha scompaginato le nostre vite, cestinato il progetto di finzione, trascinato in una realtà capovolta. Quell’incontro ci ha trasformato.

San Damiano è il nostro viaggio, o la nostra caduta, nella carne viva di umanità ferita che non ha più una famiglia, una casa, una comunità, e che cerca lo spregevole senso della vita nel cuore della nostre città, che urla ogni giorno per le nostre strade il disperato bisogno di essere vista. 

Il punto di vista della regia è quello di chi abita ai margini dei nostri marciapiedi. È nuovo perché si ha la sensazione che il film sia girato da Damiano, o da Sofia, o da Alessio. Senza retorica, o filtri pedagogici, paternalistici, è un punto di vista in grado di svelare qualcosa di semplice e primordiale, qualcosa di universale: il bisogno d’amore. 

In questo viaggio abbiamo scoperto che gli emarginati siamo noi. Illusi e distratti come siamo da un mondo funzionale, dove sei normale se distogli lo sguardo, se t’immergi nell’indifferenza. D’altra parte come arrivare al tuo appuntamento se ti fermi, se posi lo sguardo su altro all’infuori di te? Quei cuori fragili, feriti, che reclamano di essere visti, amati, compresi, abbracciati, che reclamano uno spazio, una casa, un posto nel mondo, in fondo siamo noi. Una fragilità che non ci possiamo permettere”.

Il film, duro e sincero, quanti no ha ricevuto? Vuoi metterli in fila, perché c’è sempre un’accusa generica di poco impegno da parte dei giovani autori, poi ci si mette in gioco e quante sono state le porte chiuse in faccia? 

“Noi abbiamo contattato tutti i distributori italiani, alcuni non hanno mai risposto, altri hanno detto che il film era bello ma non commerciabile. Due piccole distribuzioni volevano prendere il progetto ma non credevano che aveva il potenziale di toccare un pubblico largo, non quanto noi. Dopo esserci confrontati con altre realtà indipendenti e aver studiato come funziona la distribuzione abbiamo deciso di farla per conto nostro. È una lotta quotidiana che sfida la mentalità di chi pensa che le cose andranno sempre come sono andate, imbrigliato nella bolla di un sistema che invera le proprie profezie. Siamo usciti senza un distributore, con un film che non voleva nessuno e in un periodo in cui le sale normalmente sono vuote. Invece le (poche) sale in cui siamo sono piene. Questa è stata la più grande soddisfazione, la risposta entusiasta del pubblico.

Siamo dispiaciuti che diverse distribuzioni italiane non hanno trovato novanta minuti per vedere San Damiano mentre vanno nei mercati all’estero a caccia di film indie stranieri. C’è una tragica ironia in questo, il film è invisibile ai loro occhi così come sono invisibili gli abitanti di Termini a chi si affretta per prendere il treno. Nel frattempo, San Damiano è stato al decimo posto al Box Office, è al primo posto come numero di spettatori tra i film italiani usciti al cinema Troisi quest’anno, settimo contando gli internazionali, e 40esimo al Nuovo Aquila dal 2018 a oggi”.

Damiano rappresenta l’amarezza che abbiamo con la nostra vita, i nostri demoni e diventa la nostra libertà primordiale, che ci spaventa.

“Damiano ha il carisma – e la follia – capace di far esplodere qualsiasi porto sicuro al quale abbiamo affidato la protezione dei nostri abissi, delle nostre fragilità più indicibili. La libertà con la quale canta il suo dolore, con la quale dialoga con i suoi demoni, con le sue ferite, rivela la meravigliosa fragilità che siamo. Credo che sia l’antieroe di cui molti di noi hanno bisogno, perché nonostante il buio che ha sempre vissuto, nonostante la separazione che gli è stata imposta per la sua diversità, comunque lotta per un futuro migliore, diviso tra paradiso e inferno, tra bene e male, tra amore e odio. In questa lotta nuda e disperata le estremità dell’esistenza si toccano, le contraddizioni coabitano in una sorta di purezza disturbante. E la sua sofferenza, il suo bisogno di essere ascoltato, di incontrare l’altro, lo obbligano a trovare continuamente nuovi linguaggi per esprimersi. Damiano è un artista, uno di quei pazzi che ti cambia la vita”.  

Il film documentario non giudica, segue, si amalgama con le vite dei protagonisti, che cosa ti ha particolarmente amareggiato durante le riprese e quanto sono distanti il nostro mondo dal loro, quanta divisione mentre si condividono gli stessi spazi? 

“A Termini coesistono due mondi, quello dei passanti e quello delle persone che vivono lì. Questi mondi si sfiorano solamente, in qualche raro momento, come quello dell’elemosina, oppure quando i volontari si avvicinano per dare una coperta o un pasto caldo.

Passando tanto tempo lì, piano piano abbiamo visto svanire quella barriera che separa i due mondi, ritrovando nelle giornate di Damiano, Sofia, Alessio le stesse dinamiche che tutti viviamo, dall’amore, all’amicizia, all’odio… E ora ci viene difficile parlare in termini di “noi” e “loro”, soprattutto nel momento in cui Alessio ci affianca nelle presentazioni del film. Ci auguriamo che il film aiuti a limare le distanze, a vedere, capire, capirci, perché, come dice Damiano in chiusura del film, “non siamo perdenti. Siamo umani, ci amiamo tutti quanti.”

Ho conosciuto Alessio, uno dei protagonisti che sta vivendo una seconda possibilità con il film, voi portate i protagonisti alle proiezioni, perché? È operazione buonista, di realtà o la produzione culturale serve a cambiare la vita delle persone? 

“Alessio ha partecipato al film, venire alle presentazioni è un suo diritto, oltre al piacere di averlo con noi. Trovo che ci siano delle domande che possono essere rivolte solo a lui; per esempio a molte persone sembra assurdo che Alessio abbia acconsentito a farsi riprendere in certe situazioni, situazione nelle quali loro non vorrebbero essere ripresi. È giusto che sia lui a rispondere a queste domande, che non diventi un dialogo paternalista sulle sue scelte fatto in sua assenza. 

Oggi Alessio è nella comunità dove avevamo portato Damiano, alla Fondazione Villa Maraini, e da quattro mesi lotta per una nuova vita. Noi siamo molto felici di riuscire ad aiutarlo grazie al film. Abbiamo fatto dei piccoli ricordi del film, dal vinile della colonna sonora firmata da Cosimo Damiano, alle magliette con le frasi più iconiche del film, e il ricavato di questi oggetti è devoluto per sostenere il percorso di recupero delle persone che hanno fatto il documentario insieme a noi. La speranza è di riuscire ad aiutare più persone possibili. Abbiamo aperto anche una raccolta gofoundme (link: https://tr.ee/FRdw1vunTN) proprio l’altro ieri”. 

Tutto il documentario è un disperato gesto d’amore quando sembra impossibile amare, non solo uno sguardo nell’abisso, ma una carezza impossibile a chi non conosce più sollievo. 

“Penso che sia un film sull’amore e sulla sua mancanza. Personalmente frequentare così intimamente un’umanità così esposta, nuda, mi ha riportato con i piedi per terra, ha ridistribuito il valore delle cose, potrei dire che mi ha messo il cuore a posto. È stata un’esperienza terapeutica. 

Una cosa che abbiamo notato stando lì è che i reietti della società, paradossalmente, ma poi mica tanto, hanno ricreato una comunità con i suoi codici e con la sua “terapia”. Le relazioni sono un misto esplosivo di violenza e dolcezza, la terapia che si auto somministrano è nefasta, tuttavia, quel che resta è il desiderio di relazione umana e la consapevolezza di doversi curare in qualche mondo, abbandonati come sono a loro stessi. Sarò naif ma credo che per quanto sia profonda la ferita c’è sempre un piccolo spazio, per quanto angusto, per una carezza”. 

Una domanda che mi sono fatto è come lo avete girato? Non te lo chiedi più davanti ai film d’azione, ma te lo chiedi davanti a un film che parla di umanità. 

“Come ti dicevo è nato tutto per caso, che qualcuno potrebbe leggere come Necessità, fatto sta che non volevamo fare questo documentario. Il cuore del lavoro è senz’altro la relazione umana, anche questa coltivata con naturalezza e costellata di inciampi e preoccupazioni. Se invece la domanda è tecnica abbiamo girato tutto in due e scelto un setup estremamente compatto affinché non si sentisse la presenza eccessiva della camera (due Sony Alpha 7). Sarebbe stato tecnicamente impossibile fare questo film dieci anni fa. 

Una cosa che trovo interessante è che la relazione con Damiano è così profonda che alcuni neanche notano il passaggio tra le nostre riprese con la camera e le sue col cellulare. Questo per noi è importante, vuol dire che i nostri punti di vista si sono incontrati fino a sembrare sovrapponibili”. 

E dopo San Damiano? Dopo che abbiamo visto il film e ci siamo resi conto, dopo che abbiamo compreso, che possiamo fare o cosa dovremmo fare. Ed è compito di un film documentario spingere all’azione? 

“Se il film riuscisse a squarciare quel velo opaco intriso d’ipocrisia che ci fa chiamare “invisibile” chi vive per strada sarebbe già qualcosa. Una forma di negazione collettiva violenta. Chiamiamo invisibile chi, al contrario nostro, non ha nessuna intimità, nessuna possibilità di celare alcunché. È già tutto davanti ai nostri occhi, ma lo chiamiamo invisibile. I paradossi spesso sono rivelativi. 

Non so spiegarti l’emozione che provo quando a fine proiezione alcune persone ci chiedono cosa possono fare, a chi si possono rivolgersi per aiutare come volontari. Io spero che il film faccia porre alcune domande importanti, non posso aspettarmi l’azione, ma quando succede è senz’altro la gioia più profonda. 

A volte si verifica qualcosa di magico dopo i titoli di coda, qualcosa di molto potente, e ho la sensazione che si è tutti un po’ più vicini. Una gentile forma di resistenza alla dura legge dell’individualismo”.

Il vostro lavoro è fondamentale perché finalmente “vede” le persone ignorate, hanno uno sguardo che le osserva. Non le vediamo in strada ma paghiamo per vederle su uno schermo. Lo sguardo degli altri riconsegna vita.

“Immagino la gioia di Damiano quando si spengono le luci e per un’ora e mezza chi solitamente lo evita sta lì e ride con lui, piange con lui e lo sente vicino. C’è qualcosa di più forte di questa empatia?”.  

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