Ogni morte sul lavoro deve fare notizia ma di caporalato non si parla quasi mai: un’intervista a Marco Omizzolo

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Noi sappiamo che i padroni italiani pensano che siamo stupidi. Ci chiamano “pecore” o “animali”. Ci trattano come bestie. Questa è l’Italia? Ci sfruttano per soldi e ci uccidono per potere. I veri animali sono loro.

Marco Omizzolo, Sotto Padrone

In Italia esiste una vera e propria scorta mediatica nel raccontare il lavoro e i cancri del mondo del lavoro, tra cui il caporalato. Un sistema che unisce sfruttamento, razzismo, criminalità organizzata e che risulta fondamentale per un pezzo del primo settore nel nostro paese. 

Con Marco Omizzolo, autore, sociologo ed uno dei più grandi esperti di caporalato sul suolo nazionale, abbiamo cercato di capire del perché la narrazione delle morti sul lavoro cambi in base all’etnia della vittima, al suo status quo e al suo conto in banca. Perché c’è bisogno di un ritorno all’umanità del racconto.

Secondo il quinto rapporto del laboratorio Placido RIzzotto sullo sfruttamento lavorativo, nel periodo che va dal 2016 al 2023 ci sono state 834 notizie di sfruttamento complessive sul lavoro sul suolo nazionale, di cui 432 casi nel settore primario. I nostri attuali Ministri al Lavoro e all’agricoltura, quali Calderone e Lollobrigida, sono a conoscenza di questi dati?

«La risposta è drammaticamente sì. Sono dati pubblici, e a volte presentati dinnanzi a rappresentanti di alto grado istituzionale. C’è una conoscenza non solo rispetto a questi ministri e ministeri, ma anche da parte del Ministro della Giustizia e della stessa Presidenza del Consiglio.

Nel corso delle inchieste e dei lavori che ho pubblicato o che ho potuto dirigere ho ricordato di come Giorgia Meloni, nella scorsa legislatura, è stata eletta nella provincia di Latina, dove è morto due mesi fa Satnam Singh e qualche giorno fa Dalvir Singh. L’attuale Presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo, è stata eletta in questa legislatura nella stessa provincia. Sono quindi l’espressione di territorio in cui il fenomeno del caporalato è denunciato da decenni senza una vera presa di posizione da parte di queste forze politiche. 

Quei rapporti, che hanno fatto il giro del mondo e delle sale istituzionali, sono da loro conosciuti e questo loro silenzio è dovuto da una volontà politica. Una volontà politica veramente grave».

Questo governo, ma penso anche alla parentesi del governo Conte 1, ha una forte tensione pan penalista verso tutto: dai rave, ai migranti passando per i giovani che compiono reati di spaccio di lieve entità. Perché secondo te non si ha la stessa forza nei confronti di chi sfrutta i lavoratori nelle nostre campagne?

«Perché quell’approccio è un modo di vedere la società e il paese, fortemente orientato a distinguere tra gli affiliati e i non affiliati. I primi sono le cordate di potere, i sistemi di consenso che permettono al potere di essere saldo. Questo approccio pan penalistico che in questi due anni di governo è tornato in auge, ma già presente precedentemente, se analizzato è orientato contro un certo approccio politico e sociale.

È contro i giovani non perché i giovani siano tutti di sinistra, ma perché portatori di cambiamento e in sé naturalmente contestatori, vedi le proteste sulla Palestina. 

È contro il migrante perché è visto da questo sistema di potere come un elemento disturbante. È straniero, di un’altra cultura, e per loro stessa affermazione un invasore. L’attuale ministro dell’agricoltura ha parlato di sostituzione etnica e vi sono idee e pensieri in questa maggioranza politica che riportano sempre a questa invasione che va combattuta con tutti i mezzi possibili. Queste sono determinanti politiche che portano a contrastarsi con le linee oblique del potere attraverso la repressione ed il manganello.

Da sociologo e da professore universitario, noto che questa idea è presente da tempo e porta ad una visione autoritaria benché democratica».

Hannah Arendt, nel descrivere l’antisemitismo ne “Le origini del totalitarismo”, lo percepisce anche come un modo che utilizza il potere autoritario o anche democratico, se attualizzato, per annebbiare le coscienze rispetto ai problemi che si hanno sul suolo nazionale e per accentrare la colpa sull’altro. Perché l’altro diverso da noi.

«Questo unisce gli istinti. La cittadinanza ed il concetto di cittadinanza muta di conseguenze: non uomini e donne mature ma persone da gestire secondo i loro istinti, contro coloro che arrivano sulle nostre coste senza domandarsi da dove arrivino.

Nella tragica strage di Cutro il ministro dell’interno Piantedosi ha imputato la responsabilità della morte dei bambini alle mamme sopravvissute, perché partite per una speranza. Ferrajoli ha descritto in modo preciso questa torsione del racconto come una base identitaria di ogni regime autoritario perché punisce le vittime del problema come se fossero loro il problema.

Faccio un passaggio ulteriore rispetto anche al processo di “creazione della nebbia” che hai citato prima. Tutto questo discutere della migrazione nascondo ai più che in Italia abbiamo più di 5 milioni di persone in situazione di estrema povertà. 5 milioni di persone che non sanno come mettere il pranzo con la cena.

Questa identificazione del nemico serve per nascondere una bolla che sta per esplodere, con problemi che esistevano già da prima e che questo governo e questo modo di fare politica non vuole affrontare».

Un modo di fare politica che durante le elezioni si affaccia all’elettorato per rispondere a problemi lunghi, ma che non avendo una visione a lungo termine inciampa rispetto alla realtà e non ha assunzione di responsabilità.

«Basta vedere la situazione carceraria, che è diventato l’agglomerato sociale di ciò di cui stiamo discutendo. Invece di democratizzare quel sistema si porta a rendere un apparato già in difficoltà ancora più repressivo. Nelle nostre carceri ci sono suicidi, bambini che non vivono.

Non possiamo immaginare un potere politico-democratico che, a prescindere dal colore politico, ritenga come soluzione di questo dramma la costruzione di più istituti di pena. Il punto non è quello. Il punto è provare a costruire una costituzione matura ma chi non si riconosce nella nostra carta costituzionale, fondatrice della nostra democrazia, non può costruire un sistema paese dall’impronta democratica».

Spesso ci riempiamo della parola internazionalità, ovvero di come i fenomeni economici, sociali e civili siano connessi nel loro modo di operare ed anche nelle loro risoluzioni. Perché allora questa poca empatia anche da parte di un pezzo di società civile rispetto alle recenti morti di Satnam Singh e Dalvir Singh?

«Diverse ragioni. Quando c’è stata la tragedia Cutro o Caivano, la presidente del consiglio è stata in quei luoghi, portando quindi un’affluenza mediatica. Quando è morto Satnam, o più recentemente Dalvir, Giorgia Meloni non ha fatto altrettanto. Emblematica è la scena in parlamento dopo la morte di Satnam Singh in cui Giorgia Meloni ha dovuto richiamare all’appello i suoi vicepresidenti, Tajani per gli esteri e Salvini per le infrastrutture e i trasporti, ad alzarsi in piedi perché non sentivano la necessità per commemorare un morto sul lavoro.

La provincia di Latina è una zona che intercetta determinate istanze di potere e di natura politica in quella che è in effetti una zona grigia, e poi parliamo di braccianti.

Il tema della povertà, del lavoro e della migrazione, pone in imbarazzo questo governo. Satnam era integrato nel suo essere bracciante in questo paese da tempo e non poteva quindi essere scagliata su di lui la retorica della migrazione. Tutto questo a 60 km dal parlamento italiano, dove vi sono fenomeni di sfruttamento e agrumaria, in un luogo che ha sfornato vari esponenti di queste forze politiche. Aggiungo alla lunga lista anche Claudio Durigon, sindacalista, e attuale sottosegretario al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

La vicenda di Satnam e del caporalato fa da meridiano a questo sistema di potere. Su ciò non si possono scaricare le retoriche violente e populiste solite di una certa classe politica e giornalistica, e ciò porta all’indifferenza di un fenomeno.

Pochi giorni è appunto morto Dalvir Singh, per un malore causato dal caldo mentre lavorava. Sempre in provincia di latina. E in questi due mesi di distanze da queste morti ho ricevuto più di 30 segnalazioni da parte di sikh, indiani e anche italiani, di violenze e incidenti durante la raccolta della nostra verdura.

Ciò continua perché è un sistema economico e politico che affonda le radici su suolo nazionale e si estende all’estero in modo capillare».

C’è anche la difficoltà di immedesimazione nei confronti delle istanze di Satnam Singh, in quanto povero, in quanto straniero, in quanto bracciante, da parte anche di quella popolazione più sensibile e umana. Questo perché manca quella messa in discussione di ciò che abbiamo intorno.

«Ciò può avvenire solo con l’incontro. Lévinas, straordinario filosofo francese, ha basato il suo pensiero su questo. Il paese tutto e il suo sistema mediatico ha chiamato i braccianti come invisibili. Questo permette di abitare a fianco a loro e di nasconderli. Solo cambiando il perimetro delle parole e delle azioni si può cambiare, andando oltre le dichiarazioni che hanno fatto in tanti di tutto lo spettro politico nazionale.

Quali sono i provvedimenti post la morte di Satnam, e quindi figli di quell’ipotetico sentimento di cambiamento? L’avvertimento nelle aziende in caso di controlli da parte dell’ispettorato. Così il proprietario mette in ordine e nulla del sommesso viene fuori. Stesso approccio con il Decreto Cutro, che ha cancellato il permesso umanitario, rendendo ancora più difficile il passaggio verso la regolarità nei confronti di chi compie percorsi irregolari per arrivare in Italia. Si va sempre di più verso la politica del manganello».

Nel comunicare ciò che avviene dentro i nostri prodotti agricoli, appunto, c’è anche un problema di linguaggio e comunicazione. Una parte del campo giornalistico ha interiorizzato un razzismo e classismo sottocutaneo?

«Si. Partendo dall’utilizzo della parola invisibile, dalla parola sbarco quando si dovrebbe usare la parola attracchi. C’è un linguaggio razzializzato, implementato da parte di una popolazione molto ampia che raggiunge anche il sindacalismo, il giornalismo e la politica.

Questa tradizione di linguaggio legittima l’uso di metodologie repressive nel racconto di questi avvenimenti e nel modo di confrontarsi ad essi, dall’uso delle parole invasore fino all’ampliamento del nostro codice penale. Ciò purtroppo è stato assunto anche in modo neutro anche da quel mondo che per visioni della società e di altri temi dovrebbe essere più vicino a ciò.

A questo va legato che negli ultimi trent’anni abbiamo mandato in soffitta il tema della critica. Ovvero la messa in discussione rispetto a ciò che dichiaro e promulgo. Questo esercizio della critica non lo facciamo più, e alienati assumiamo discorsi politici violenti e che non risolvono i problemi reali». 

Tendiamo anche a raccontare chi viene da altri paesi come sola forza lavoro, e non come esseri umani. Questo non solo abbatte il discorso ma silenzia anche le storie e l’umanità dietro a chi compie questi viaggi della speranza. 

«È un puro approccio utilitaristico. Perché ci servono? Perché non facciamo figli, perché gli italiani sono sempre meno e più anziani, perché non vogliamo fare lavori umili e degradanti.

Il sistema d’accoglienza non si dovrebbe basare su questo, su quanto puoi essere forza lavoro. Si dovrebbe basare sul riconoscimento di te come persona umana, che hai diritto ai miei stessi diritto in quanto esistente, a prescindere da ciò che farai in futuro. 

Non ti riconosco come persona e quindi di essere accolta se puoi fare determinate mansioni, ma come tale perché portatore di una dignità, quella umana, che tutti noi abbiamo e meritiamo. 

E di questi discorsi utilitaristici la sinistra attuale è piena perché i migranti ci servono, come esempio, come assistenti sociali dei nostri anziani. Ma se viene un 60enne, combattente della libertà in Afghanistan contro il regime talebano, e ha rischiato la decapitazione… perché non riesce a  lavorare non dovrebbe entrare? Invece proprio per il suo essere, per la sua storia, per il solo essere portatore di nome e cognome tu puoi entrare e diventare parte della nostra società».

Perché le cosiddette forze progressiste del nostro paese hanno difficoltà a prendere la lotta al caporalato, e in generale all’economia sommersa che si basa sullo sfruttamento lavorativo, come temi identitari?

«Evitiamo di semplificare, ma ci sono problemi a livello culturali, di conoscenza profonda. Da anni di populismo abbiamo creato una classe politica, su scala provinciale, nazionale ed europea, che non sta dentro le culture e non assimila-comprende ciò che avviene intorno ad essa. La semplificazione rispetto alla complessità, soprattutto rispetto alle migrazioni. 

Le migrazioni, dopo le rivoluzioni, portano al più grande cambiamento nei contesti sociali. Perché cambiano il mondo del lavoro, dell’accoglienza, del sociale e della socialità, del linguaggio, della politica e dell’umano. Gli antropologi da secoli dicono che alla base del cambiamento vi è l’inclusione, e la migrazione è l’avvenimento con il più alto potenziale di incisività nella storia umana. 

Il confrontarsi con 100 cieli e non più con il tuo unico è la vera sfida della politica e della contemporaneità, e la nostra classe dirigente non riesce a stare in questa complessità. Dialogando con politici da 20 anni, comprendo che il neo laureato di scienza politiche alla Sapienza ha più nozioni e capacità d’analisi della classe politica attuale». 

Come politica si è pensato a creare solamente una classe dirigente e non una culturale. Le rivoluzioni avvengono quando c’è, oltre ad una massa politica, una classe che ha i mezzi per contrastare il dominio perché capace di comprendere ciò che accade intorno a sé. Forse ora abbiamo una società pulsante, ma non una classe intellettuale.

«A questo uniscici una classe politica che odia gli intellettuali e le riforme universitarie ed editoriali che hanno centrato il potere intellettuale in logiche amministrative e politiche, e quindi non di ampio respiro. Andando ad impoverire il paese.

Penso anche agli attacchi che hanno subito Saviano, Murgia ed altri da parte del potere. Noi come giornalisti, scrittori e similari possiamo essere criticati, ma se viene dall’alto è diverso. Perché isola chi critica il potere, e danno un messaggio politico agli altri perché chi critica il potere deve essere zitto e subisce delle conseguenze. Quando in provincia di latina, mentre subivo attacchi fisici da parte dei caporali, scriveva che io ero che cercava premi in giro per l’Italia lancia un messaggio preciso.

Questo diventa una spedizione punitiva, una macchina del fango per tacitare la critica, bloccarla e delegittimarla. Non comprendendo però che la critica al potere e ai sistemi di potere è la base della democrazia. Popper, uno dei miei autori preferiti, diceva che una società che non riconosce la libertà di critica è una società che volge al totalitarismo. E questo sta avvenendo, in forma subdola, in Italia, in Europa ed anche oltreoceano in modo subdolo».

Quali potrebbero essere delle misure sul breve o lungo periodo che si potrebbero adottare a livello europeo, nazionale, regionale ed anche locale di contrasto al caporalato? E perché, se vi sono, non vengono attuate?

«In queste settimane sono stato convocato da varie commissioni e ci sono dei punti essenziali in discussione che possono essere cruciali per cambiare le cose.

Il primo è un cambiamento della normativa sull’immigrazione e l’accoglienza. Va abrogata la legge Bossi-Fini e lo stesso Decreto Cutro. Va ragionato un sistema d’integrazione che possa andare a pari passo con ciò che è sancito dall’articolo 10 della nostra Costituzione.

Secondo, ma legato al primo, è una riforma strutturale del mercato del lavoro. Ciò che è accaduto a Satnam è accaduto in primis in quanto lavoratore sfruttato. Ci sono condizioni di precarietà enormi in tutto il paese, figlie di politiche che in modo trasversale sono state adottate negli ultimi 50 anni. Questo va connesso anche al togliere potere, in modo preciso, a quell’imprenditoria che si atteggia da un punto di vista padronale nei confronti dei lavoratori. Ecco qui l’utilizzo di espressioni penali precise ma sempre con fondazioni democratiche potrebbe essere uno strumento utile al contrasto al caporalato.

Io non voglio più essere chiamato alle tre di notte, come mi è accaduto ultimamente, perché lavoratori sfruttati venivano chiamati in piena notte dal padrone a raccogliere i cocomeri che dovevano essere freschi alle 6 del mattino seguente sui banconi degli agroalimentari di grande distribuzione su tutto il paese. Serve un riequilibrio dei rapporti di forza, e questo può partire solo da un approccio umano nei confronti dell’altro».

Autore

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

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