Il contesto sociale nel quale si cresce ha una grande influenza nella formazione di un individuo. Da esso dipende una larghissima parte dei tratti più peculiari della personalità. L’argomento non è certo nuovo alle scienze sociali: Pierre Bourdieu, alfiere dello strutturalismo critico, metodo di studio della sociologia di impostazione marxista, in un importante testo intitolato La distinzione. Critica sociale del gusto, ha evidenziato la forza condizionante delle strutture sociali sui gusti e sui consumi delle persone.
Lo spazio sociale ha delle importanti ripercussioni anche per quanto riguarda – e soprattutto – i prodotti artistici ai quali gli individui si accostano. Uno su tutti, la musica. Negli anni Settanta probabilmente questo aspetto era, secondo Bourdieu, particolarmente evidente: classi sociali più abbienti presentavano un certo tipo di gradimento, radicalmente differente rispetto a quelle meno agiate. Lo stesso discorso è valido non solo per la fruizione, ma anche per la produzione.
Secondo questo ragionamento, la famiglia e le origini hanno un ruolo preponderante. Senza accorgercene acquisiamo un pacchetto di comportamenti e conoscenze che determinano gran parte delle nostre scelte. Sviluppiamo quel gusto o quello, perciò, anche a partire dall’influenza che i nostri familiari hanno su di noi, dai dischi che ci fanno ascoltare ai libri che ci fanno leggere, fino ai film che ci fanno vedere.
Il gusto ha un ruolo centrale nella società e concorre alla costruzione della stessa. Perché? Perché la classe che domina – non è difficile pensare che sia quella più ricca – impone il proprio canone estetico e i rispettivi modelli di comportamento alle altre subalterne. Nonostante le affermazioni di Bourdieu trovino spesso una conferma in ciò che si verifica nella realtà, questo assunto finale non sembra essere valido per quanto riguarda la cultura hip-hop, nata dal basso e approdata ovunque.
Biggie: I got a story to tell, l’ultimo docufilm di Netflix sulla vita di Notorious B.I.G., è l’esempio lampante di quanto detto. Tra le scelte musicali che hanno influenzato la discografia di Biggie Smalls, sarebbe un errore non citare il ruolo che ebbero le origini giamaicane della sua famiglia. Queste non ebbero, tra l’altro, solamente una forte ascendenza circa alcuni elementi sonori, ma giocarono un ruolo principale anche per quello che, a sentire le parole della madre Voletta Wollace, sembrerebbe una vera e propria tara ereditaria di riscatto e successo.
«Sono nata qui in Jamaica. In una casa sulla collina. Ma ho sempre sognato di essere una donna ricca sfondata. Una signora benestante con tre figli». Un’aspirazione che, secondo un processo osmotico, passò al figlio, il quale fin dalla tenera età, secondo modi talvolta poco ortodossi, ricercò sempre il successo e la ricchezza. La madre, durante l’intervista riportata, continua dicendo che «se non fosse per lui, non ascolterei musica rap. A me piace la musica country-western. Mi piacciono le ballate. E anche a casa, in Giamaica, c’è una certa ora del mattino in cui alla radio si sente il country-western».
Questa influenza viene testimoniata anche dalle dichiarazioni del suo amico d’infanzia Hubert Sam, il quale raccontando di come da bambini ascoltassero i dischi dei Run DMC, aggiunge che «ogni estate Chris tornava dalla Giamaica e riportava del gergo e della musica giamaicana che noi non ascoltavamo. Musica rock, reggae, country. Diceva: “Non riesco a dormire senza la musica country”. Eravamo scioccati».
L’iniziazione ai ritmi giamaicani si deve allo zio Dave. La nonna Gwendolyn Wallace, nella videointervista presente nel docufilm, dice di Chris che «amava stare con suo zio Dave, perché Dave era il musicista e lo portava in quei locali dove suonavano la loro musica, e giurò che quando sarebbe diventato famoso, Dave avrebbe fatto parte della sua cricca». Ancora giovanissimo, perciò, il futuro rapper frequentava l’ambiente delle dancehall, dei clash, vedeva i cantanti giamaicani fare toasting sopra i riddim durante le feste. Non è un caso che, anni dopo, nel disco d’esordio – Ready to Die– che sarà un instant classic e lo consacrerà nel pantheon dei più grandi rapper mondiali, ci sarà un sample proveniente dalla musica reggae, Gun Man Tune cantato dall’artista giamaicana Diana King, presente nella canzone Respect. Il dj Mister Cee, parlando della prima volta che vide Biggie fare freestyle a Fulton Street, dice: «non so nemmeno se B.I.G. capisse davvero le sue radici giamaicane. La storia dei dj giamaicani, quelle che chiamavano ‘chiacchiere al microfono’. Le sbruffonate… la presenza al microfono era importante e B.I.G. ce l’aveva».
Tutte queste cose ebbero una grande importanza nella carriera artistica del giovane Christopher, il quale fece della dieta musicale variegata, un suo punto di forza. Infatti, l’amico e produttore di Biggie, Puff Daddy, tiene a specificare che «un segreto recondito è che Biggie era un autore R&B. Ecco il perché delle melodie. Era raro che rappasse. Cantava sempre le canzoni di qualcuno». Questa affermazione viene testimoniata da un breve video che ritrae il giovane in un momento di leggerezza con i suoi amici mentre improvvisa una strofa melodica in stile soul.
Un talento che già da piccolo non tardò a manifestarsi. È sempre Hubert Sam a raccontare di quando «Chris voleva fare la sua registrazione e trovammo uno studio a Brooklyn chiamato Funky Slice, dovevamo ottenere il permesso dei nostri genitori. Mettemmo insieme i soldi della nostra paghetta. Fece una canzone sul ritmo di Africa dei Toto. Quindi non era bravo solo nei testi, ma aveva creatività per le canzoni».
In alcuni casi la sua voglia di riscatto e la sete di successo, che lo spinsero ad essere il go-getter che poi divenne, si incrociò con i suoi riferimenti musicali. Nei primi anni della sua adolescenza, ebbe modo di conoscere il jazzista Donald Harrison, suo vicino di casa. Chris vedeva Donald sfoggiare sempre abiti appariscenti, dentro macchine costose, accompagnato da donne bellissime. Per lui diventò subito un esempio e un’icona di stile. Dal canto suo, il musicista decise di accoglierlo come un allievo e lo iniziò alla musica jazz, al cinema, all’arte.
«All’inizio cercavo di preparare Chris a diventare un artista jazz, perché aveva tanto talento. Una cosa su cui abbiamo lavorato è stato mettere ciò che il rullante faceva nella batteria del bebop nel ritmo di una rima. Abbiamo ascoltato Max Roach con Clifford Brown. Ba-do-do, Ba-do-do, Ba-do-do. Max ha un modo melodico di suonare la batteria, trasforma il ritmo in una melodia. Quindi, se rallenti una di quelle idee, tipo, ci mette delle parole, puoi sentire che Notorious B.I.G. stava accentando quelle note e facendo le rime in un modo che trasuda tutte le qualità più fini di un assolo di batteria bebop. È incredibile».
Tuttavia il condizionamento ambientale non è un aspetto visibile solamente per quanto riguarda il lato musicale. È interessante notare come l’ambiente abbia condizionato anche l’attività illegale dell’artista, e, andando ancora più nello specifico, la tipologia dei reati: lo spaccio, che ebbe molto a che vedere con la poetica wallaciana. Cesare Alemanni, scrittore e giornalista, ha pubblicato nel 2019 un libro dal titolo RAP. Una storia, due americhe, edito da Minimum Fax, nel quale ripercorre le origini della musica hip-hop dagli esordi ai nostri giorni, delineando al contempo la storia degli Stati Uniti.
L’autore a un certo punto scrive che «sono numerosi i rapper che dichiarano esperienze criminali nel loro passato. In molti casi si tratta di esagerazioni, in altre di complete invenzioni, in altri ancora di vissuti reali, portati alla stringente necessità. A Christopher Wallace non si applica nessuna di queste condizioni. Il che, paradossalmente, rende ancora più problematico raccontare come uno dei più grandi rapper di sempre abbia in effetti spacciato copiose quantità di crack da ragazzo. E non solo abbia spacciato una sostanza dall’impatto devastante sulle comunità nere ma abbia scelto di farlo senza averne davvero bisogno».
Infatti, Notorious B.I.G. «era cresciuto in una situazione più che dignitosa, circondato dall’affetto di un genitore straordinariamente presente e di amici normali. A Natale riceveva il regalo che desiderava, quando lo richiedeva in tavola trovava il suo piatto preferito, ogni weekend era consacrato a una gita a Manhattan, ogni estate al mare della Giamaica e la scuola privata che frequentava – peraltro con ottimi risultati specie nelle materie umanistiche – era tra le migliori della zona. Aveva insomma tutte le ragioni per tenersi lontano da certe cose».
La scelta dello spaccio fu sicuramente condizionata dall’ambiente di Bed-Stuy e più in generale da quello di Brooklyn, nel quale crebbe. La percezione dei giovanissimi era quella di un modo rapido di fare soldi per permettersi le sneakers, le t-shirt firmate, le collane d’oro, l’ammirazione dei coetanei e l’interesse delle prime ragazze. In un momento in cui il crack aveva letteralmente invaso non solo le strade, ma anche gli obitori d’America. Simultaneamente però possiamo dire che fu anche una scelta in qualche modo cosciente. Il primo arresto di Chris risale al 1989. Aveva 17 anni.
Un confronto con Tupac
Negli stessi anni in cui Biggie si formava, un altro suo coetaneo, del quale non posso esimermi di fare menzione, muoveva i suoi primi passi nel mondo dell’arte e della musica. «Nato a East Harlem undici mesi prima di lui, vagabondava per l’America – Uptown Manhattan, Baltimora, e infine un sobborgo di San Francisco – al seguito di una madre che un tempo era stata un membro attivo delle Black Panthers ma che, a metà degli anni Ottanta, si contava ormai tra i milioni di vittime dell’epidemia del crack. Il suo nome era Afeni e aveva deciso di chiamare il figlio Lesane Parish Crooks, salvo cambiare idea e ribattezzarlo come un martire-rivoluzionario peruviano del Settecento: Tupac Amaru II».
L’ambiente che influenzò la musica di Tupac era molto estremo. Soprattutto dal punto di vista politico. «Tupac era cresciuto circondato da combattenti. La madre, il padre, il padrino, il patrigno erano stati tutti in qualche modo coinvolti nelle Black Panthers o in qualche attività criminale a sfondo eversivo. Più che verso la rivoluzione, le iniziali inclinazioni di Tupac lo spinsero però verso il balletto e il teatro. A Baltimora si iscrisse alla locale School of Arts dove studiò recitazione, danza e poesia e dove ancora lo ricordano per la dolcezza, il senso dell’umorismo, il carisma magnetico e la passione per Shakespeare. Dopo le lezioni era quindi solito recarsi alle riunioni della Young Communist League, un po’ per un’infarinatura su Marx, un po’ perché si era invaghito dalla figlia del direttore del partito comunista locale».
Una formazione dunque molto peculiare, per un rapper di strada. La componente politica di Tupac, che assorbì in ambiente familiare, è visibile sin dai primi pezzi del disco d’esordio 2Pacapalypse Now. In Words of Wisdom infatti, canta:
Non c’è Malcolm X nel mio libro di storia, perché? Perché ha provato a educare e liberare tutti i neri. Martin Luther King, invece, è nel mio libro ogni settimana, perché? Perché hai detto ai neri, se vengono presi a sberle, di porgere l’altra guancia.
Una bella differenza, se pensiamo che il primo singolo col quale Biggie fece successo fu Party&Bullshit. Anche per Tupac, musicalmente, il contesto sociale ha un ruolo di primo piano. I suoi ascolti consistono perlopiù in acid rock e soul psichedelico. E, ovviamente, musica rap: E-40, Too $hort, Mc Hammer. Tupac militò per un certo periodo anche nei Digital Underground, che tenevano in vita lo spirito psichedelico funk della Bay Area. Così come per Notorious B.I.G., anche per lui la malavita fu un’ importante cifra non solo stilistica, ma biografica. La criminalità interferì durante la sua carriera artistica in un momento ben preciso: quando cominciò ad accompagnarsi a Jacques Agnant, un criminale conosciuto col nome di “Haitian Jack”, il quale ebbe una grande responsabilità circa il primo arresto del cantante, dovuto al coinvolgimento in uno stupro. E probabilmente anche nell’attentato ai Quad Recordings Studios di New York, dove Shakur venne raggiunto da quattro colpi d’arma da fuoco, fortunatamente non letali.
In questo senso, il momento più importante della sua carriera, fu la firma con la Death Row di Suge Knight, l’etichetta discografica di Dr. Dre e Snoop Dogg, col quale uscì l’ultimo album di Tupac, All eyez on me: «significava allinearsi a un ethos da gangster che si posava perfettamente con l’uomo cupo e indurito in cui Tupac era stato trasformato da due anni densi di violenza e dall’esperienza del carcere. Supervisionato da Suge Knight e dal leggendario Dj Quik, All Eyez On Me certifica come il Tupac “politico” e “rivoluzionario” dei primi dischi fosse ormai un ricordo e al suo posto fosse rimasto solo Tupac Shakur il gangster, gioiello della corona di un’etichetta che sulla mercificazione del gangsta rap aveva fondato il suo successo. Per la natura della città, il rap losangelino si posizionava poi in una zona grigia tra il semplice trarre ispirazione dalle storie di criminalità ad esserne infiltrato o farne parte, come del resto dimostrava la figura intimidatoria di Suge Knight e una etichetta come la Death Row».
Comunque sia, entrambi i rapper, sia Biggie che Pac, subirono la violenza del razzismo sistemico dell’America, che se da una parte li segnò profondamente, dall’altra generò una grande rabbia e voglia di riscatto che alimentò, seppur in modalità diverse, la stessa fiamma artistica. Entrambi morirono in circostanze poco chiare, vittime forse del torbido sistema giudiziario statunitense e delle sue collusioni con la malavita.
Notorious B.I.G. morì il 9 marzo del 1997. Qualche settimana dopo, uscì postumo il suo ultimo disco, Life After Death. Il ritornello dell’ultima canzone diceva:
Non sei nessuno finché qualcuno non ti uccide. Non voglio morire, Dio dimmi perché.
Autore
Vengo al mondo lo stesso giorno di Virgilio, lo stesso anno di Enter The Wu-Tang. Bibliofilo, fumettomane, trekker, all’occorrenza festaiolo impavido.