Non siamo più capaci a parlare di mafia

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Meglio la fine di una cosa che il suo principio.

È importante ciò che lasci, non la conclusione.

Uno è un verso della Bibbia, l’altro è un verso di Salmo (per la precisione il brano è 1984). Il senso di entrambe le frasi è lo stesso: non importa come inizia una cosa, come si evolva e che effetto avrà verso la tua vita e gli altri; ciò che conta davvero è come si conclude.

E il 23 Maggio 1992 è stata la conclusione di 5 vite terrene, di una parte di un sogno, e forse della vera rivoluzione che aspettava il nostro paese. 

Ma quelle idee camminano ancora sulle nostre gambe perché pure se l’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro ha lasciato una voragine nella nostra memoria di gran lunga più profonda di qualsiasi tritolo, quelli sono stati semi. Semi di un’idea di società diversa, in contrasto alla criminalità organizzata tutta. Una criminalità che non sappiamo raccontare e spiegare.

Non siamo più capaci a parlare di mafia, e partendo da Capaci capiremo perché.

In un match sportivo bisogna saper riconoscere le fazioni

È il classico giovedì pomeriggio, e i tuoi colleghi universitari o amici ti invitano per una partita di calcetto. Si arriva finalmente a 10 persone e arriva il messaggio fondamentale: il colore delle canotte. Se non ci si può distinguere sul campo da gioco, non si potrà mai vincere per davvero la sfida. 

Questa è stata ed è tuttora la situazione della lotta contro la criminalità organizzata, fin dai tempi della prima repubblica continuata fino ad oggi.

L’arte della guerra di Sun Tzu (sempre se sia sua la partenti dell’opera) ha dato un riferimento chiave per le operazioni militari e belliche, applicabile anche alle strategie di contrasto nei confronti di un nemico non esclusivamente guerrigliero: 

Se conosci il nemico e conosci te stesso-nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo.

Se non conosci il nemico ma conosci te stesso-le tue possibilità di vittoria sono pari a quelle di sconfitta.

Se non conosci né il nemico né te stesso-ogni battaglia significherà per te sconfitta certa.

Giuseppe Ayala, ex magistrato, ha passato anni con Falcone e Borsellino nelle annate del Maxi processo e pur non essendo giudice istruttore ma sostituto procuratore, ha collaborato con il pool in quello che diventerà noto come il Maxi Processo. Ayala racconta, indirettamente, come Sun Tzu avesse ragione e che la battaglia contro la mafia non è stata vinta per una questione di “riconoscibilità” del nemico: 

Immaginiamo un incontro di calcio. Le istituzioni da una parte, l’avversario dall’altra. Le squadre sono ben definite e riconoscibili senza difficoltà, perché indossano maglie di colore diverso. La partita è regolare. Questo avvenne nel match contro i terroristi. E finì come doveva finire, vista la soverchiante forza della squadra-Stato. La partita contro la mafia non è stata vinta per la semplice ragione che non è mai stata giocata sul serio. I colori delle maglie non hanno segnato la netta distinzione tra le forze in campo. Il pubblico non è in condizione di seguire l’incontro, se vede giocatori che dovrebbero stare da una parte schierarsi dall’altra e viceversa. E mancata la pre-condizione. Con alle spalle quello che dovrebbe essere il tuo avversario, che ti chiede magari di passargli la palla, come è possibile giocare? La partita è truccata.

Giuseppe Ayala-Chi ha paura muore ogni giorno.

Una partita, uno scontro, una battaglia che non si voleva prima del maxi Processo, durante l’iter giudiziario e neanche dopo le condanne passate in giudicato, le stragi del ’92-93 e tutti questi anni di grigio tra la prima e la seconda repubblica.

Colpire le persone per abbattere un movimento

Il 1984 è l’anno di svolta. Una persona vuole parlare e svelare i misteri e le strategie di un gruppo di persone che sta spargendo morte e controllando gli affari del contrabbando internazionale con sede in Sicilia.

L’uomo è Tommaso Buscetta, il gruppo di persone è Cosa Nostra nelle sue varie formazioni, in particolare rispetto alla famiglia dei Corleonesi.

Ma affinché un uomo possa parlare ha bisogno di essere ascoltato: qui entra in gioco un Palermitano classe 1939. Laureato in giurisprudenza a 22 anni, magistrato a 25 anni e giudice istruttore, sa che per scoprire qualcosa di nascosto ai più e al diritto c’è bisogno di entrare nella storia di chi cosa nostra l’ha conosciuta, vissuta e forgiata. Giovanni Falcone incontra Tommaso Buscetta nel 1984 a Brasilia, a luglio, con un caldo sudamericano.

Buscetta, come dettagliatamente scritto da Falcone in Cose di cosa nostra, era stato appena arrestato e Falcone aveva compilato un elenco di domande che, secondo la procedura, sarebbero state poste a Buscetta da un giudice brasiliano. Entrando nella stanza dove si svolgeva l’interrogatorio, Falcone è colpito nel vedere Buscetta accompagnato dalla moglie e si mise sul chi vive. Buscetta rispondeva evasivamente alle domande del mio collega brasiliano e, mentre Giovanni si chiedeva se non stesse perdendo il mio tempo, il «boss dei due mondi», per dirla con i giornali del tempo, si rivolse a lui: «Signor giudice, per rispondere a una domanda del genere non basterebbe tutta la notte». Giovanni si rivolse al magistrato italiano che lo accompagnava e, suscitando la sua incredula ilarità, gli disse:

«Credo proprio che quest’uomo collaborerà con noi».

La mafia viene vista e studiata da dentro, e quella testimonianza diventa fondamentale per un processo che farà la storia dell’Italia e della giurisprudenza europea. 

Il Maxi processo di Palermo vede la paternità nella figura di Rocco Chinnici. Consigliere istruttore, ucciso da Cosa Nostra nel 1983, Chinnici comprende che i singoli uffici dei giudizi e degli uomini e delle donne di giustizia palermitane non possono lavorare singolarmente: c’è bisogno di fare squadra, di creare un pool. Il Pool Antimafia creerà il Maxi processo, e nonostante le morti, l’atmosfera surreale, e le pressioni mediatiche la consapevolezza di stare dalla parte giusta della storia diventa realtà nel 10 Febbraio del 1986. Inizia il processo di primo grado, concluso in cassazione il 30 gennaio del 1992.

In questi 6 lunghissimi e tortuosi anni Falcone, Borsellino e tutta la squadra dietro a questo capolavoro del diritto subisce una vera e propria macchina del fango da parte della politica e della stampa.

L’esempio lampante avviene durante l’intervista di Corrado Augias nella trasmissione babele del 12 gennaio del 1992 a Giovanni Falcone. Al Giudice palermitano viene posta una domanda:

Lei dice che nel suo libro (Cose di Cosa Nostra) è scritto che in Sicilia si muore perché si è soli, ecco, chi la protegge?

Giovanni Falcone risponde subito, con schiettezza e mai scomponendosi: 

questo significa che per essere credibili in questo paese bisogna essere ammazzati? Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa, e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere.

Qui Falcone faceva riferimento al mancato attentato dell’Addaura, dove per puro caso dell’esplosivo posto sotto la sua dimora non era esploso il 21 giugno del 1989. Come riporterà lo stesso Gerardo Chiaromonte, presidente della commissione antimafia, alcuni seguaci del politico e sindaco di Palermo di quel periodo Leoluca Orlando sostenevano che era lo stesso falcone ad aver organizzazione l’attento per farsi pubblicità per rafforzare la sua candidatura a procuratore aggiunto.

La macchina del fango era già iniziata, e Falcone e Borsellino cominciarono a morire anche per l’essere stati isolati da dei colleghi invidiosi e da uno stato assente, lasciando spazio di manovra alla criminalità organizzata che vedeva in loro i nemici numero 1 da annientare.

Una vita si conclude anche prima dell’ultimo respiro

La morte. 

L’annientamento della persona. 

Un attimo prima sei attività, sei azione, sei movimento. 

Il momento dopo diventi passato, staticità, immobile.

Ma tra questi due passaggi non c’è un attimo, ma una dilatazione del tempo che allontana i due momenti. Falcone e Borsellino compresero di essere in quello stato del tempo. Erano nella vita, nella lotta alla mafia e nella rivincita di un intero territorio. Ma erano anche soli, e la solitudine è la cosa più simile alla morte che la natura abbia mai creato.

Gli anni tra il 1982, degli omicidi di Dalla Torre e della Chiesa, e del 1992, con le stragi di Capaci e via d’Amelio, vennero definiti gli anni della disattenzione. La verità qui sta nel mezzo, perché Falcone e Borsellino divennero personaggi noti alla popolazione civile e alla giustizia internazionale. Attraverso le loro tecniche di investigazione e la loro tenacia-precisione lavorativa, stavano creando le basi per contrastare ed applicare un nuovo metodo di antimafia giudiziaria e culturale.

Ma lo Stato, e non solo, inflissero gravi colpi che portarono alla lenta e agognata morte culminata con le bombe. 

Tra l’agosto e il Settembre del 1991 Falcone viene contestato prima da alcuni esponenti del PCI e poi della DC, per poi confidare al funerale del collega Antonino Scopelliti:

Se hanno deciso così non si fermeranno più, ora il prossimo sarò io”.

Nella Creazione del DNA, Direzione Nazionale Antimafia, tramite decreto legge nel novembre del 1991, Falcone presentò la domanda per diventare il primo procuratore nazionale antimafia. Gli verrà preferito un candidato che verrà battezzato come “l’anti Falcone”: Agostino Cordova.

Ma il momento in cui inizia a morire Giovanni Falcone è il 1988.

C’è la votazione dal parte del CSM per scegliere chi sarà il nuovo consigliere istruttore della Procura di Palermo. Falcone non verrà eletto, e secondo Borsellino lì c’erano i vari Giuda che portarono al vero isolamento di Falcone.

23 Maggio del 1992. Falcone muore insieme a sua moglie e alla scorta nella strage di Capaci. Da lì a due mesi il suo compagno storico, collega e braccio forte Paolo Borsellino si definirà come un morto che cammina. In quei due mesi proverà con tutte le forze a scoprire i veri mandanti politici e mafiosi dietro la scomparsa del suo amico.

Ma ogni cadavere deve tornare alla sua tomba, e la sua tomba avvenne in via d’Amelio, il 19 Luglio del 1992, 57 giorni dopo aver abbracciato per l’ultima volta Giovanni Falcone morente.

Quel tritolo è stata la conclusione, vero.

Ma non una conclusione che è esplosa nel nulla.

Era programmata, era ragionata, e la sua attesa è stata lenta e dolorosa, come il più mortifero dei veleni.

Gli echi di quelle esplosioni non sono passate inosservati, come qualcuno invece voleva.

Tra lo spazio e il tempo delle macerie di Capaci

Il momento di maggior significato dopo la strage sono stati i funerali di stato. 

Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, durante le commemorazioni funebri lancia un grido disperato. Non è il grido solamente di una moglie che ha perso il marito in modo tragico, ma di una terra che non vuole più sangue sopra di esso, di una comunità che ha sete di giustizia e di verità.

“Vito, vito mio, angelo mio, ti hanno portato via, non potrò più baciarti, non potrò più abbracciarti, non potrò più accarezzarti, Vito, sei solo mio”

Il funerale sarà un tumulto. Palermo è ricolma di persone che hanno ancora sulla loro pelle i brividi dell’esplosione e le immagini nitide dei telegiornali. In piedi davanti al leggio, guardando la folla riunita nella chiesa, sotto gli occhi delle telecamere di numerose reti televisive nazionali, Rosaria invoca con tutto quello che ha in corpo: 

“Agli uomini di mafia che sono anche qui dentro voglio dire… Tornate ad essere cristiani, ve lo chiedo per la città di Palermo, che avete reso città di sangue”. 

Prima ancora che il cardinale ponesse fine alla messa, i familiari e i colleghi dei poliziotti assassinati manovravano per impedire che i dignitari dello Stato si avvicinassero alle cinque bare –“Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti”, uno di loro fu udito dire.

Rosaria Costa, nonostante l’incontrollabile emozione del momento, continua la sua preghiera straziante:

“Uomini di mafia, io vi perdono, ma dovete mettervi in ginocchio”. 

Parole che fanno il giro della penisola.

La pressione morale sugli uomini politici italiani perché dimostrassero di non essere complici degli assassini che a Capaci avevano ammazzato Giovanni Falcone si dimostrò irresistibile. Ed alcuni risultati arrivarono.

Attraverso il decreto 306/1992 convertito nella legge 356/1992 venne attuato a pieno regime il 41 bis, una disposizione del nostro ordinamento penitenziario che attraverso un preciso regime carcerario ha come finalità l’isolamento dei boss e dei capi mafia detenuti per due principali motivazioni:

-isolarli dalle attività criminose e l’ipotetica reiterazione dei reati;

-la collaborazione con la giustizia, strumento efficace nel colpire in modo chirurgico la criminalità organizzata.

Negli anni ’90 l’Italia avrà un processo di trasformazione senza precedenti: le stragi mafiose, l’avvento di Mani Pulite, la fine della Prima Repubblica, la cattura di Totò Riina, di Giovanni Brusca e degli altri boss furono la fine di un’epoca.

Cosa nostra non riuscì in quello che era il suo intento originale, ovvero utilizzare la strategia stragista per porsi come protagonista egemone in quella che era la trattativa Stato-Mafia. Trattativa che aveva come finalità da parte dello Stato di far cessare la stagione stragista e da parte di Cosa Nostra di ottenere alcuni benefici in relazione ad alcuni istituti giuridici: il carcere duro, la legge sui collaboratori di giustizia, la revisione dei processi.

Ma se a Palermo non si spara più, o si spara meno, sembra tutto così lontano.

Se la mafia è cambiata negli intenti, è perché si è avvicinata ancora di più alle nostre necessità. Un qualcosa che lo stato e la politica non sono riusciti a fare.

E 32 anni dopo Capaci, parlare di mafia cosa vuol dire?

La cultura è più potente di qualsiasi arresto, ci piaccia o meno

Proviamo un gioco di immedesimazione: siamo in un paese di periferia del Nord Italia.

Hai una famiglia composta da padre, madre e sorella minore.

Tuo padre fa il metalmeccanico, e quindi guadagna all’incirca 1400 euro al mese. Hai una sorella piccola, e causa i turni stressanti di tuo padre si decide che tua madre resta a casa. Fa la casalinga perché non avete parenti vicino a voi che vi possono dare una mano praticamente.

Tu fai il 4 superiore, e vedi costantemente tramite i social le vite perfette dei tuoi cantanti preferiti, delle star globali e capisci che in Italia l’ascensore sociale è rotto, la scuola non riesce a trasmettere i strumenti per aspirare ad un futuro migliore e probabilmente farai lo stesso lavoro di tuo padre.

Ma sai che se riesci ad entrare nel mondo dell’illegalità potrai tentare i soldi, il successo e la fama. Certo, hai molti più rischi, ma tu vuoi tutto subito, perché ti interesse l’oggi e non il domani.

Una storia del genere, che rappresenta la normalità di molte famiglie in Italia, è il motivo per cui non riusciamo a parlare di mafia.

La Mafia, nella sua crudeltà, è meritocratica. Se vendi di più, guadagni di più. Se spari, scali le gerarchie. Se ammazzi, hai rispetto. Potremmo dire a quale prezzo: non si arriva a 21 anni e se ci arrivi è perché subirai una pena in carcere, con la famiglia trucidata e nemici intorno…ma non è meglio l’adrenalina del momento che la mediocrità dell’esistenza media?

Parlare di mafia vuol dire discutere del nostro sistema economico e di quanto sia unito all’illegalità.

Parlare di mafia significa comprendere le disparità sociali e culturali all’interno del nostro paese. Parlare di mafia è l’analisi della storia politica e culturale del nostro paese. 

Parlare di mafia è comprendere l’enorme quantitativo di errori commessi e di difetti che non vogliamo assumerci

E se il cadavere sotto il tappeto non lo vediamo è come se non ci fosse, giusto?

Nel corso di questi ultimi 30 anni qualcuno e qualcuna ha provato a parlare di mafia, ma è stato tremendamente isolato: perché scomodo, perché radicale, perché raccontava cose troppo complesse e che le persone normali non vogliono sentire.

Al bar si parla della difficoltà di portare a casa il pane. Alle poste si dialoga su quanto sia impossibile fare una tac. Ed ecco che è lì, dove la legalità non funziona, che arriva l’illegalità.

Aveva ragione Falcone: la mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano.

Noi abbiamo deciso di avere questa malattia. In questo caso gli antidoti esistono: li vogliamo però?

Autore

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

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