Con Giovane cuore, il suo ultimo EP, Ethan Lara, artista queer, ha creato un’opera autobiografica per raccontare se stesso e le sue radici brasiliane. Tra la sua uscita in occasione del Pride Month e il video ufficiale di “Pugni” girato in un locale gestito da una comunità trans, Ethan racconta l’esigenza di definirsi per affermarsi senza filtri, la necessità di parlare anche alla comunità LGBTQI+ e l’importanza di essere libero.
Stasera [21 settembre], in occasione del Romaeuropa Festival, ti esibirai al Mattatoio di Testaccio in collaborazione con Alcazar live nella rassegna musicale LineUp! dedicata alla nuova musica pop italiana. Qui, avremo modo di ascoltare anche i brani del tuo ultimo EP, Giovane cuore. Perché proprio “giovane cuore” e da quali esigenze è nato?
«In realtà ho impiegato un po’ a capire come chiamare l’ultimo progetto perché avevo un po’ di idee che erano rimaste ferme da Idiosincrasia, l’EP precedente. Faccio sempre un sacco di brainstorming perchè sono una persona che, avendo molte idee, deve fare un recap prima di decidere. Tra tutti questi pensieri, il fatto di aver scritto un EP autobiografico, in cui c’è tanto della mia vita e anche delle mie origini, e dove per la prima volta ho esplorato tutta la parte funky del Brasile, ho pensato che il titolo più giusto fosse rappresentare quello che sento, cioè un giovane cuore, che è di base il mio e di tutte le persone che si ritrovano a vivere vite, relazioni, aspettative e confronti con persone. Non ci sentiamo mai pronti quando siamo giovani, quindi è come se fosse una lettera a questo giovane cuore che sono io e che avevo bisogno di tirar fuori.
Ho sentito che potesse rappresentare l’idea di parlare a un cuore che è un po’ rotto a volte, in altri momenti è più solido, come in tutti i ragazzi e le ragazze giovani. È quel momento tra adolescenza ed essere adulti, in cui non sei né carne né pesce, hai la crisi dei venticinque anni e quel cuore lo senti molto fragile. Paradossalmente lo sento così più adesso che quando ero piccolo. Perché quando sei piccolo ti proteggi da un sacco di cose e hai anche un po’ di spavalderia che ti permette di non sentirle. Quando poi, invece, devi lavorare sulla tua persona devi buttar giù tutti i muri e quindi ti scopri».
Se potessi etichettarla, come definiresti la tua musica?
«Questa è una domanda a cui non so mai rispondere perché non lo so neanche io. Forse direi in divenire. Ha delle radici che sicuramente provengono dai miei ascolti sin da quando ero piccolo: R&B, soul e jazz. È chiaro che quella roba l’ho ascoltata e assorbita talmente tanto che inevitabilmente è finita in ciò che faccio. Credo che, alla fine dei conti, in questo mix tra le mie radici e la mia esplorazione nei confronti della musica pop, e cercare delle sonorità che in qualche modo mi possano rappresentare in un mercato saturo, sia difficile trovare la propria cifra stilistica. Non saprei dare una risposta con un aggettivo unico e questa è, forse, la cosa che mi piace di più. Cioè il fatto che non mi voglio limitare a inserirla in una scatolina».
Hai rilasciato Giovane cuore a giugno, in occasione del Pride Month. Perché e quali tematiche affronti?
«Mi piaceva l’idea di uscire in un mese che non fosse invernale perché, sembra una cosa banale, credo che ogni disco abbia un colore. E questo lo sentivo non direi felice, perché non è un disco felice, ma esploratore in modo diverso rispetto a Idiosincrasia, che, invece, è più cupo, molto più da inverno e club. Mi piaceva l’idea di poter suonare d’estate, quindi facendo delle date, come è successo al pride, in cui parlassi direttamente a persone della comunità LGBTQI+. Questo non significa che io voglia rivolgermi solo a quel tipo di pubblico ma, essendo un artista queer, mi piace raccontare le storie che viviamo, come cerco di fare anche sui social.
Non credo ci siano delle tematiche nel disco particolarmente legate all’essere queer quanto, invece, all’essere una persona. Sicuramente mi piace pensare che le persone della mia comunità si possano ritrovare nelle mie parole, nel sound e anche nell’estetica, che curo molto e che mi piace fare arrivare. Il fatto che sia uscito durante il mese del pride ovviamente è stata una volontà mia, sia per il colore del disco sia per poterlo suonare in contesti in cui sapevo ci sarebbero state persone queer ad ascoltare».
Collegandomi a quanto hai detto, hai partecipato a diverse manifestazioni in tutta Italia volte alla sensibilizzazione, all’inclusione e all’educazione a favore della comunità LGBTQI+. Lo stesso video musicale di Pugni è un omaggio alla ballroom ed è stato girato in un club milanese gestito da persone della comunità trans, diventandone luogo simbolo. Cosa significa per te queer, com’è essere artista queer in Italia? Secondo te, è importante definirsi per combattere le definizioni stesse?
«C’è bisogno, non ce n’è bisogno: secondo me sì. È un’esigenza, un bisogno di espressione in cui non mi va di fingere di essere una cosa che non sono, di dover plasmare la mia immagine per stare a favore delle altre persone o, detta male, per piacere di più al nazionalpopolare. Per me è un bisogno espressivo che parte da dentro di me, da dentro il mio stomaco e che non riesco a fingere. Per me è normale, quando esprimi qualcosa, cercare di avere meno filtri possibili tra quello che tu sei e quello che arriva agli altri di te.
Dentro il mio essere una persona, dentro la mia artisticità, c’è anche il fatto di essere queer, che è il modo in cui mi esprimo, anche visivamente, e parlo, è quello che decido di dire. Certo, non vorrei che la mia musica arrivasse solo a quel pubblico perchè vorrei parlare a più persone possibili. Per questo tipo di progetto e per la modalità in cui è stato comunicato, però, credevo fosse fondamentale prendere una posizione nel panorama musicale, per quanto possa fare differenza la mia presenza, da artista emergente che, quindi, non ha smosso tantissimo. Nel mio piccolo so, però, che questo ha potuto aiutare persone a riconoscersi, a ritrovarsi, a sentirsi un po’ più sicure di essere ascoltate.
Che cos’è l’essere queer per me non lo so ancora. Non credo ci sia una definizione definitiva ma posso dire che è abbracciare tutte le parti della mia persona, quelle socialmente femminili e quelle maschili, e cercare di farle dialogare fra loro senza necessariamente doverle giudicare come ci è stato insegnato, in qualche modo, anche incosciente, sin da piccoli, purtroppo, per il sistema in cui viviamo. Significa esprimere, senza filtri, l’essere a proprio agio con la propria sensibilità e artisticità. Credo dipenda dal percorso che quella persona, in quel momento, sta attraversando, anche con se stessa.
Io qualche anno fa, banalmente, non avrei mai parlato in questo modo qua, un po’ per mia insicurezza, un po’ per il fatto che dovevo capire ancora molte cose. Io non biasimo chi decide di non schierarsi, ma credo che sia necessario farlo in un momento in cui, purtroppo, è ancora oggettivo il fatto che le persone queer non abbiano gli stessi diritti».
In Noite e dia si parla di oggettificazione sessuale ed è l’unico brano scritto in portoghese. Perché questa scelta?
«Avevo tantissima voglia di esplorare quella parte della mia vita e della mia persona. Mio padre è brasiliano, sono stato molte volte in Brasile ma non ho mai vissuto al cento per cento quella realtà. Ci vado ogni anno, ho molti amici e parenti, quindi sono a contatto con questa parte che, però, non avevo mai esplorato musicalmente. Volevo concedermelo.
Sicuramente, in qualche modo, mi ha protetto parlare di sessualizzazione in una lingua che non fosse in italiano perchè sarebbe stato molto più esplicito e diretto. E, poi, per il gioco di parole che utilizzo, perché non avrebbe suonato nello stesso modo. Nella sonorità, nel mondo e nell’immaginario della musica funky, di quella musica di strada brasiliana, si parla di cose molto sessuali. Mi sono sentito più libero col portoghese, quindi, e con quel tipo di suono».
In Cose che non so di me, invece, parli di dipendenza affettiva e di relazioni che oggi chiamiamo tossiche quando, ad esempio, affermi «vorrei fossi tu il mio male». Secondo te, la musica può essere uno strumento di sensibilizzazione positiva per parlare di salute mentale?
«Assolutamente sì. Io non credo di esserci riuscito e non credo di essere neanche pronto, forse, in questo momento perché sto ancora lavorando su di me, e lo sto facendo in terapia. Sicuramente si può fare e se ne può parlare. Devo ancora capire come ma sono sicuro che già il fatto che in qualche modo rilasci endorfine e ti faccia sentire protetto sia importante quanto il fatto che tu lo faccia in maniera ancora più diretta, parlandone. Credo che oggi gli artisti si stiano muovendo, parlando molto di più di salute mentale, sia da un punto di vista di comunicazione, anche social, che nei pezzi. Penso, per esempio, alla differenza tra i testi degli anni Novanta e quelli di oggi, anche da parte di autrici donne: si parla molto di più di indipendenza, di presa di posizione. Ed è una cosa molto bella, importantissima».
La tua essenza artistica la eserciti con la voce e con il corpo. A cosa ispiri la tua estetica, quali messaggi speri di trasmettere con l’una e con l’altro? E, lavorando anche nella moda, riesci a unire entrambi i mondi?
«L’aspetto del corpo è una parte della mia persona che sto esplorando di più oggi. Ho avuto molta difficoltà ad avere confidence con il mio corpo, soprattutto sul palco. Nella vita di tutti i giorni mi sento abbastanza tranquillo a questo riguardo, ma il fatto di aver puntato sempre sulla voce e sulle canzoni non mi ha mai fatto esplorare la parte corporea, quindi cercare di comunicare da un punto di vista fisico durante i live. Sto cercando di lavorarci perché, sono sincero e mi scopro a mani basse, è un punto grave in ogni esibizione.
Vorrei iniziare a prendere lezioni di ballo, è già tutto programmato. Dobbiamo iniziare a prendere un po’ confidenza non perché necessariamente bisogna essere performer sul palco, anche perché per questo disco a parte qualche pezzo up, gli altri sono più chill, ma perché è proprio importante.
Riguardo al mio stile, io non mi sento di averne uno definito e, anzi, il fatto di darmi la libertà di poter esplorare e dire tante cose diverse, sia durante i live che durante la vita di tutti i giorni, mi lascia, spesso agli occhi degli altri, come non coerente e senza uno stile, ma che si veste bene. Sto cercando di capire ancora come rappresentare esteticamente la mia persona anche se la cosa che più mi interessa è sentirmi libero. E per mia libertà intendo anche esplorare, essere un giorno una cosa e il giorno dopo un’altra: è sempre stato così fin da piccolo. Per me questo è sufficiente.
Non mi importa essere un’icona di stile per qualcuno, mi interessa essere libero».
Perché dici che a volte non vieni visto come coerente?
«Sì, spesso mi è stato detto che esploro, sia a livello visivo che di styling, sia la parte maschile che femminile. Il mio armadio è vario, ci sono tante cose. Per dirti, non so ancora come mi vestirò il 21, perché per me dipende molto da come mi sento la mattina. Potrei anche venire in tuta con delle sneakers, come no. A volte ne soffro, perché in un mondo che ti vuole molto categorizzato è necessario avere quel tipo di stampo agli occhi degli altri. Ma sto imparando, per me, a placare un po’ quella parte che mi chiede di essere in un certo modo e di performare con stile.
È importante la parte visiva ma lo è ancora di più il fatto che visivamente risulti libero piuttosto che cool».
Durante un suo concerto, Marco Mengoni ha invitato i suoi fan a sentirsi liberi di essere in qualsiasi modo loro vogliano. A cosa inviteresti i tuoi, invece?
«Mengoni è un artista che stimo moltissimo perché, oltre a essere un cantante indiscutibilmente eccezionale, mi piace molto quello che fa, il modo in cui ha riadattato la sua carriera e abbia fatto molta ricerca. Probabilmente direi la stessa cosa di Mengoni, è una persona che prendo molto come riferimento. Sì, magari in un modo diverso, ma direi la stessa cosa».
Autore
Giorgia Cecca
Autrice
Sono atea ma ho vissuto dalle suore. Sono di sinistra ma una volta ho votato PD. Non mi piace la monotonia ma guardo spesso i film di Nanni Moretti. Piango mentre leggo Mattia Torre perché è la persona che mi fa più ridere. Guido una Vespa perché ho visto troppe volte Caro diario. Sempre per quella questione della monotonia. Che, forse, non mi piace.