Per questo, per altro, per tutto: lo slogan scritto, cantato e urlato è una dichiarazione d’intenti, un programma che è anche paradigma.
L’esperienza del collettivo di fabbrica degli operai ex-GKN è singolare nel panorama politico, internazionale oltre che nazionale. Per tentare di descriverla è necessario fare una premessa: la singolarità del fenomeno – cioè di occupazione della fabbrica, di azione politica e mediatica del movimento, di sviluppo di un piano industriale per la riconversione dell’azienda – deriva dal fatto storico e ineludibile che oggi la partecipazione politica, e di conseguenza la politica, è erosa dall’avanzamento del mercato e della tecnica.
Vuol dire che, per quanto possa sembrare superfluo, perfino ovvio, l’esistenza di centri di potere privato che dominano in varie forme il mercato ed il suo sviluppo – multinazionali, lobby, oligopoli – sono i principali avversari della partecipazione democratica alla cosa pubblica, intesa oggi come gestione-partecipazione politica della comunità ed alla comunità.
Perché la democrazia, ed a cascata tutte le sue garanzie – costituzione, libertà, diritti – passano per chi detiene il potere economico e quindi le sue componenti sono sempre più eterodeterminate dal mercato. In questo sta il grande cambiamento rispetto al secolo scorso: la politica è sempre meno immediata ed sempre più mediata da queste forze, salvo che mai ne è stata priva.
Cosa testimonia, quindi, l’esperienza del collettivo di Fabbrica?
Intanto, sul piano politico
Lo slogan su ricordato, «Per questo, per altro, per tutto», lo si diceva, è paradigma perché foriero dei due corollari ad esso associati: convergiamo ed insorgiamo.
#Convergiamo: perché il collettivo ha capito che oggi le lotte politiche sono possibili solo nella comunione con altre lotte. Perché lo sfilacciamento ideologico e partecipativo di cui si diceva in premessa, sembra essere ricomponibile almeno in parte dai temi che riguardano tutti, che siano intersezionali, per usare un termine ombrello ma che è il centro della questione. Per questo l’utilizzo della schwa, la collaborazione con il movimento Friday for Future e gli altri movimenti ambientalisti. La novità rilevante di questa operazione è però che, finalmente, il perno è tornato ad essere il lavoro. Non esiste nessuna lotta perseguibile se non si parte dal contrasto alla subordinazione economica per come è oggi concepita dal mercato, cioè che si possa essere legittimamente ed impunemente licenziati con un messaggino o con una mail.
#Insorgiamo: perché il collettivo GKN ha rimesso al centro – pragmaticamente – la questione di metodo: la piazza, virtuale e reale, è il luogo dove ci si afferma ed è fondamentale allargarla sempre di più. La protesta assume quindi connotato politico diretto e le rivendicazioni, per quanto strutturate, si fanno tramite cortei, iniziative, comunicati. La comunicazione è organizzazione: questo sembra essere un punto fermo del metodo adottato dal collettivo. In una società interconnessa, la comunicazione ha la duplice funzione di accentrare e organizzare e di essere lo strumento per cui passa il convincimento ideologico. Per parlare e far parlare di un tema dimenticato come il lavoro, si deve passare per le forme comunicative di questo tempo.
Un metodo diverso, un sindacalismo diverso
Tutto ciò si pone in discontinuità netta con la concezione delle relazioni sindacali a cui siamo abituati e riaccende il conflitto operaio in modo significativo.
Intanto, perché ci ricorda che il conflitto operaio esiste e di conseguenza ci sono ancora modi per portarlo avanti. Ovviamente, in modo molto diverso da quelli che sono esistiti nel 1900, dove la fabbrica era ancora quella fordista, dove la funzione sindacale era essenzialmente di tipo rivendicativo. Un esempio per tutti è la legge n. 300 del 1970, chiamata anche “Statuto dei lavoratori”.
Oggi la situazione è cambiata da tanti punti di vista. La subordinazione, come categoria socioeconomica, ha assunto forme diverse e sempre più lavori non sono coperti dalle vecchie conquiste: basti pensare ai rider. In questo scenario entra ovviamente anche il caso GKN: una delocalizzazione, manovra all’ordine del giorno per una grande multinazionale, è sintomatica dei mutati ed evoluti sviluppi dell’economia capitalista. Ebbene, a questi sviluppi il collettivo GKN ha saputo fornire una risposta diversa, una nuova risposta per superare il conflitto tra capitale e lavoro.
Questa risposta è un rinnovato conflitto sindacale tanto nei metodi, come abbiamo visto prima, quanto nella sostanza. È infatti nel modello dell’autonomia e della cogestione che risiede la differenza con il metodo e gli obbiettivi del sindacalismo precedente. La funzione del sindacato non è più solo quella rivendicativa, ma soprattutto quella dello sviluppo di diversi modelli aziendali, che contemplino la partecipazione diretta dei lavoratori nella gestione dell’azienda e che siano aperte a forme di mutualismo.
In questo, il collettivo si sta rendendo perfettamente esemplificativo. Ha lanciato una raccolta fondi per finanziare il piano industriale che consentirebbe la riconversione della fabbrica in modo che produca pannelli fotovoltaici, batterie e cargo-bike e preveda la partecipazione dal basso, di lavoratori e lavoratrici, oltre che di piccoli investitori, alla gestione aziendale. Ecco qui il paradigma di cui all’inizio, in pratica: autonomia e cogestione in opposizione al capitalismo finanziario ed accentratore. Il guadagno dei molti, rispetto al guadagno dei pochi, dove giustizia sociale ed ambientale sono al centro delle relazioni sindacali ed industriali.
E quindi?
Tutto molto bello. Ma rispetto a questa appassionata descrizione credo sia necessario rimettere i piedi a terra e capire quali possano essere oggi i punti deboli o comunque quali sono i motivi per cui non è molto probabile che il collettivo GKN, almeno direttamente, rappresenti un punto di inversione storica.
Due i fattori principali:
- In un mondo tecnologicamente ed industrialmente avanzato, come fa a sopravvivere una piccola realtà che parte da un autofinanziamento, senza soccombere? Purtroppo, non è detto che, anche se il piano industriale del collettivo arrivi a meta, possa proliferare nel tempo. Se nel mercato di oggi il pesce grande mangia il pesce piccolo, è difficile che anche un fuoriclasse come la riconvertita GKN, possa fare eccezione.
- In più e forse in senso più rilevante: come fa la realtà del collettivo a sopravvivere nell’isolamento sindacale e politico in cui abita? Non esiste oggi in Italia nessuna organizzazione sindacale, né tantomeno politica, in grado di comprendere la portata e l’occasione che il collettivo rappresenta. Ed è ovvio che senza altri apparati di supporto, questa realtà non possa espandersi veramente. Non ci sono interlocutori sul piano politico: la sinistra non ha capacità di espandersi e di parlare al suo elettorato storico, stessa cosa dicasi dei sindacati, che vivono ancora di più la crisi di partecipazione ed ideologica, divenendo spesso dei meri apparati burocratici.
La mancanza, almeno apparente, di organismi in grado di recepire la novità rappresentata dal caso GKN, non permette l’espansione del fenomeno, la sua condivisione e questo a sua volta provoca la difficoltà che il tema venga socialmente affrontato, innanzitutto. Perché, per tornare alla premessa, solo il rinnovato interesse e la partecipazione (culturale prima, politica dopo) a qualcosa consentono la sua riuscita.
Ma non tutto è perduto. Le lotte si fanno anche per simboli, per simulacri. Il collettivo questo merito ce l’ha: è già simbolo. Significa che la classe operaia esiste ancora e che le alternative al sistema economico in cui viviamo non sono fantasie, ma possibilità.
Autore
Federico Mastroianni
Autore
Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.