La storia di un uomo diventato un sentiero: Giovanni Falcone nel nuovo libro di Roberto Saviano

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Procuratore generale Pizzillo, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Cesare Terranova, Boris Giuliano, Gaetano Costa, Emanuele Basile, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Paolo Borsellino, Giuseppe Ayala, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Pietro Scaglione, Ninni Cassarà, Antonino Caponnetto, Calogero Zucchetto, Vincenzo Geraci, Giovanni Paparcuri, Alfonso Giordano, Pietro Grasso, il capitano Pascali, Giacomo Conte, Gioacchino Natoli, Ignazio De Francisci, Antonino Saetta, Liliana Ferraro, Mario Almerighi, Giacomo Montalto, Ilda Bocassini, Libero Grassi, Antonino Scopelliti, Pietro Scaglione. C’erano in quel 23 maggio, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello, Giuseppe Costanza, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Angelo Corbo, Rocco Dicillo, Francesca Morvillo, e Giovanni Falcone.

Nomi che ci dicono qualcosa? Alcuni. Nomi che ci ricordano qualcosa? Pochi. Nomi che hanno cambiato la storia? Tutti, ognuno a modo suo. Questi sono solo alcuni dei tanti nomi presenti nel romanzo Solo è il coraggio di Roberto Saviano. Sbaglia chi crede che questo sia un romanzo su Giovanni Falcone perché, nonostante la sua figura sia centrale nell’opera, la nuova fatica letteraria di Roberto Saviano è un romanzo corale. È un romanzo dove non si ha paura di fare nomi e cognomi della mafia e nomi e cognomi dell’antimafia.

Non è un solo un romanzo sulla persona di Giovanni Falcone ma è da considerarsi, piuttosto, un romanzo su tutte quelle persone, quelle storie, vite, e soprattutto morti, che hanno reso Giovanni Falcone un grande uomo. Un grande uomo che è stato condannato per il solo fatto di essere stato mitizzato. E il suo non è un mito eroico: è il mito dell’audacia, il mito di Sisifo che combatte da solo, sapendo di non arrivare alla meta, ma capendo che per il solo fatto di provarci, ed esserne sconfitto, fa della sua storia il mito più bello e umano che si possa raccontare. 

Qualcuno, se ne ha il coraggio, dica a Sisifo che è un privilegiato. Che vuole far carriera. Che è un protagonista. Sisifo non guadagnerà mai la cima del monte. Lo sa benissimo. E nonostante ciò cammina, cammina, cammina, s’inerpica sul fianco della montagna con le spalle curve, la schiena schiacciata dal peso di quel macigno. Questo non fa di lui un Dio, tutt’altro. Ne fa un grande uomo.

Il romanzo di un grande uomo che diventa, poi, un sentiero

«Io ho sempre pensato di essere un ingranaggio della macchina, insieme a te, Paolo Borsellino, Guarnotta, Di Lello, Caponnetto, a tutti quelli che si stanno rovinando la vita, la famiglia. E anche a quelli che sono caduti per strada». Sollevano entrambi i bicchieri in un brindisi muto. «E a quelli che di noi cadranno».

È lo stesso personaggio quasi a giustificarsi: il centro non sono io, siamo, e siamo stati, noi. La figura dell’eroe non gli piace, e come potrebbe mai piacere ad un uomo che agisce per il suo solo “spirito di servizio” nei confronti dello Stato, della giustizia e del coraggio? E allora, forse, sarebbe giusto definirlo un combattente, un lottatore, visto che da Sisifo dei nostri giorni non potrà mai uscirne come vincitore. 

«Ma a che imprese è destinato un soldato se, mentre lui si lancia all’assalto col fucile spianato, i suoi generali firmano armistizi e si spartiscono regni fra una trincea e l’altra?»

Forse lo possiamo solo definire un martire? Forse. Perché questo è un libro che dimostra come in realtà non sia solo il coraggio, perché tante collaborazioni, lavori, studi, viaggi hanno contribuito a crearlo, quel coraggio. È un libro che dimostra come si possa morire, da soli, per il coraggio. Come si possa morire per aver avuto il coraggio di mantenere quella purezza del cuore, di cui Saviano aveva già parlato nell’introduzione del suo libro precedente: «Puro non è il cuore che è rimasto sempre nascosto, protetto, che è stato sottratto all’errore, che non è stato contaminato da nulla, che non si è mai sporcato, che è ancora illibato. Puro, al contrario, è il cuore che ha vissuto, che ha toccato tutto, che si è contaminato, che ha camminato insieme agli altri in mezzo all’inferno. E che però è rimasto autentico».

E questo libro è autentico come lui: sa ringraziare i collaboratori, li osanna; sa puntare il dito contri i mafiosi e li condanna. Saviano ripercorre con questa opera molte di quelle che ha scritto. È impossibile non pensare alle tante e sole storie di coraggio di Gridalo, passando per un altro romanzo, La paranza dei bambini, fino alla sua prima opera, la grande inchiesta di Gomorra. Eppure, paradossalmente, questo è un libro che riporta più di tutti a Zero, Zero, Zero e non solo per il contenuto, ma per una frase di Blaga Dimitrova. È l’esergo prima dell’inizio dell’opera, e che Saviano ha spesso definito come la sua citazione preferita: «Nessuna paura che mi calpestino. Calpestata, l’erba diventa un sentiero».

Forse, alla fine, Giovanni Falcone non è mito, coraggio o eroe. È un grande sentiero, calpestato non più dalla mafia, ma dalle idee che sono rimaste e continueranno a camminare sulle gambe degli altri. E anche questo non è nulla di nuovo, perché in realtà, era stato proprio lui a dircelo: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini».

E questo è un libro che ti permette di camminare su quel sentiero pestato, e che ti obbliga a non fermare più questo cammino che hai intrapreso, anche a costo di non arrivare mai alla meta, proprio come Sisifo.

Autore

Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.

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