Decameron e pandemia: giovani reclusi durante la pestilenza

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Loro raccontavano storie, noi postavamo stories

Sono 672 gli anni che separano l’epidemia di peste che ha colpito la città di Firenze – e l’intera Europa- dalla nostra pandemia, il coronavirus. Secoli che ci hanno distanziato da un capolavoro letterario in realtà più attuale di quanto crediamo. Un grande insegnamento che si protrae fino ai nostri giorni e che si aggancia per contenuto e contesto a quel che abbiamo vissuto: il Decameron, opera di Giovanni Boccaccio terminata nel 1351, e il suo concreto rapporto con la pandemia.

Boccaccio parte proprio dalla mortifera pestilenza che colpì nel 1348 l’intera Europa per cominciare la stesura del suo capolavoro, il Decameron. È nell’introduzione alla prima giornata che, infatti, chiarisce lo stimolo dell’orrido cominciamento, ovvero la peste, nelle parti orientali cominciata. Il primo ponte con la nostra condizione è proprio qui, nella culla in Asia Minore che cita l’autore, perfettamente coincidente con la città di Wuhan in Cina da cui probabilmente si è diffuso il virus nel dicembre 2019. Dalla Sicilia e poi a causa dei traffici commerciali per il resto del continente, il morbo ha coinvolto la società trecentesca portandola allo strenuo.

La cornice del Decameron, valida anche per il nostro quadro

Boccaccio introduce l’opera con un’analisi lucida e attualissima sulla condizione di Firenze, colpita dal morbo della peste. Questa lunga parte, che funge da cornice del Decameron, contestualizza e traccia le coordinate dentro cui si sviluppa poi la vera vicenda, ovvero l’incontro di sette fanciulle e tre ragazzi che nel propagarsi della pestilenza decidono di rifugiarsi per dieci giorni in una villa di campagna, raccontandosi storie.

In primo luogo viene sottolineato come in città nessun medico riuscisse a trovare una cura adeguata, che ricorda un po’ la nostra agitazione dinanzi ai contagi che aumentavano senza sosta e senza un’imminente rimedio. Boccaccio prosegue parlando dell’ignoranza di chi si spaccia per dottore o scienziato senza però alcuna competenza, in una situazione in cui ognuno poteva sentirsi erroneamente libero di dire la propria opinione. Quanti anni ci separano dalla tragedia fiorentina e quanto simili in realtà appaiono gli atteggiamenti degli uomini, spaventati e allarmati, spesso sentenziosi e con voci a sproposito sull’argomento, con virologhi last minute e complottisti in prima fila. Ma non finisce qui: nella cornice di dati storici, veritieri, in cui non bastavano becchini per seppellire tutti i morti, l’autore pone l’accento sulle conseguenze psicologiche di questa epidemia. Mancano i rapporti sociali, con due vie di comportamento che vengono adottate: la strada della solitudine, l’ascesi all’interno delle proprie dimore – che è un po’ il comportamento di chi spaventato ha tagliato ogni contatto con l’esterno – e chi invece, ormai arreso dalla trasmissione irrefrenabile, decise di abbandonarsi ai piaceri della carne:

il giorno e la notte ora in quella taverna, ora in quell’altra, bevendo senza modo

che oggi chiameremmo assembramenti nell’ora dell’aperitivo. Ma senza campari.

Un ponte fra ieri e oggi, per un sentimento che non ha tempo: la paura

È proprio nel descrivere i contagi e le conseguenti reazioni che emerge la bravura del Boccaccio: dimostrare come il sentimento di paura, che silenziosamente colpiva chiunque prendesse parte alla tragedia del quarantotto trecentesco, avesse la grande funzione di svelare le fragilità umane. Allora in una strada fiorentina, ora in una fila al supermercato, sotto gli occhi indiscreti di chi teme e vocifera spaventato, portando le persone in un appiccarsi da uno a altro, in un gioco di accuse e scuse, dove i principi di affetto vengono meno; un nemico più grande che ha reso a sua volta nemici, e che ha portato l’individuo ad essere, citando il grande pensatore Seneca, «inhumanior inter homines», più inumano fra gli uomini.

Il Decameron come microcosmo di una società ideale

Le dieci giornate, da qui il titolo Decameron, si rifanno al periodo trascorso in una villa in campagna dalla brigata – come viene definita da Boccaccio- di giovani fiorentini che un martedì mattina, presso la chiesa di Santa Maria Novella, si incontrano per andare a trascorrere dieci giornate fuori dalla città, riuniti in una delle ville che si trovavano sulle colline intorno a Firenze. La più adulta, Pampinea, racconta il timore di morire e il degrado morale che ha investito la società, dove ormai tutto sembra andare a rotoli:

impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare (…). Le persone sono rotte della obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali.

Ogni giorno i ragazzi organizzano e scandiscono le giornate con diverse attività, tra cui quella di raccontare delle storie. Viene eletto un re o una regina che ha il compito di definire l’argomento da trattare (ad esempio la seconda giornata che ha come tema quello della fortuna, oppure la quarta che è dedicata agli amori infelici) e si arriva al termine dell’opera con cento novelle totali.

In questo locus amoenus viene dunque ricreato un microcosmo, una società ideale che l’avvento della peste nera ha sporcato per sempre: unione e organizzazione, convivenza felice intorno al dialogo.
È proprio qui il grande insegnamento del capolavoro di Boccaccio, da trascinare e custodire con cura anche nei nostri giorni: affidarsi al potere della parola, dello scambio e della condivisione per stringersi di fronte al pericolo esterno. Condividere per non disperdere, così come accenna infatti il proemio del Decameron:

umana cosa è avere compassione degli afflitti

ed essere umani provando empatia, proiettandoci verso l’altro.

Decameron, Pier Paolo Pasolini, 1971


Dieci adolescenti raccontavano storie, noi postavamo stories. Quanto siamo diversi? Quanto siamo simili? Il tempo di quindici secondi su instagram per sentirci più vicini e meno annoiati, il tempo di una beffa come ci insegna l’ottava giornata, in cui per uscire si imbrattavano le autocertificazioni e la bella Fiammetta faceva entrare in casa Spinelloccio mentre il marito era a lavoro.

Distanti secoli, ma vicini e uniti da quel che siamo in eterno per nostra natura: uomini, spaventati, con un grande bisogno di condividere. Una videochiamata per una storia raccontata, una diretta per una canzonetta, challenge da provare per una morale da trovare, congiunti ostacolati e senza gambe per i racconti delle amorose fiamme, coprifuoco e zone rosse per fughe promosse, e nelle campagne o nelle seconde case al mare, sempre intimoriti, fragili e confusi, con storie da raccontare.

Autore

Aurora Rossi

Aurora Rossi

Autrice

Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.

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