Cosa succede dopo aver bloccato tutto?

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Milioni di persone in strada, automobilisti bloccati nel traffico che invece di imprecare applaudono, i sindacati di polizia che si schierano, cantanti, artisti, comici. Giovani e vecchi, tutti insieme. L’argine è rotto, il cuore del Paese ha ripreso a battere, la Sumud Flotilla è stato un defibrillatore. Volevamo liberare la Palestina e invece la Palestina ha liberato noi.

Ma, c’è un ma. Il G8 e il Global Social Forum ce lo hanno insegnato. Se non costruiamo subito organizzazione, immaginario e leadership giovane, quest’onda muore e spesso muore ammazzata, prima ancora di diventare storia. Le immagini arrivate da Roma – strade piene, scioperi, milioni di corpi in movimento – hanno cambiato qualcosa: non è più una rabbia occasionale, un hashtag sui social, è l’inizio di una stagione di lotta. E si inserisce in un contesto globale: la Generazione Z protesta ovunque, Nepal, Marocco, Madagascar, Perù, dalle università americane alle piazze europee. Suona di lotta internazionale.

In Italia, però, la Gen Z è minoritaria, troppo poco numerosa per fare la rivoluzione. Il motore dei movimenti resta nelle mani di generazioni precedenti, più esperte, vero, ma anche molto più prudenti, più affezionate a vecchi schemi, con posizioni di rendita e poca voglia di fare spazio. E questo è un altro ingrediente che aumenta il rischio di fallimento.

«Senza leadership giovani non troveremo mai leve creative e tecnologiche che moltiplichino la nostra forza d’impatto sui governi»

Se vogliamo colpire lo status quo dobbiamo aprire spazio a leadership radicali, giovani, irriverenti, puberali. In Marocco la Gen Z organizza scioperi su Discord, in Nepal ci elegge i governi dopo la rivolta, in Asia inventa simboli virali come la bandiera di One Piece per unire immaginari di resistenza. Noi invece restiamo prigionieri di simbologie antiche, importantissime certo, ma non originali. Ci serve produrre una simbologia nuova, di rottura, conflittuale.

«La bandiera di One Piece è diventata un simbolo come icona pop della ribellione a governi corrotti: i simboli contano e cambiano l’immaginario»

Sì, perché il cambiamento nasce dal conflitto con lo Stato (in questo caso con gli Stati e le loro classi dirigenti), non dalla supplica. Un conflitto serio, strategico, inarrestabile. Rabbia collettiva e non furia individuale. Lo scriveva Hannah Arendt: “La libertà nasce quando agiamo insieme, non quando concordiamo”, e lo sapeva Antonio Gramsci, che la rivoluzione non è un lampo, ma una lenta guerra di posizione, una costruzione di Egemonia culturale. Ho provato a mettere in fila tre sfide, tre direzioni per trasformare la piazza in potere reale.

1. Istituzionalizzare la ribellione e il conflitto

Il primo passo è semplice, ma quasi nessuno lo fa: organizzare la ribellione, darle una forma, un metodo, una durata. Serve un tavolo strategico, un luogo politico dal basso che riunisca sindacati, studenti, portuali, ONG, corpi intermedi, non un’assemblea infinita ma un direttivo politico di poche persone delegate con un mandato chiaro (9 persone, non 200), è una durata in carica precisa, 6-12 mesi. Eletto, certamente, da un processo ampio, come è successo in Nepal, dove hanno votato il governo su Discord, dopo aver fatto la rivoluzione, quella vera. Questo offre capacità di intervento strategico, direziona la forza sociale verso un cambiamento lavorabile, ottenibile, misurabile.

E quella piattaforma politica deve porsi obiettivi che non si sciolgano nel moralismo. Qualche esempio, valido per il caso delle proteste per la Palestina:

  • Embargo totale a Israele e sanzioni efficaci, come monito a chi in futuro volesse imitarli
  • Stop al riarmo nazionale, spostando risorse verso le tre S: scuola, salari, sanità
  • Chiedere le dimissioni dei governi complici del genocidio

Senza obiettivi concreti la protesta si dissolve, ma con obiettivi chiari diventa forza contrattuale, diventa storia.

«L’indignazione è utile solo se sa dove andare. Altrimenti evapora»

Come ricorda Saito Kohei, il capitalismo, con le sue operazioni di washing, prova a neutralizzare la rabbia trasformandola in compatibilità sistemica, ma una società che non organizza il conflitto lo subisce, e alla fine soccombe, per questo è urgente rendere strategiche le richieste politiche di un nascente movimento.

2. Organizzare la massa invisibile

Nessuno sembra curarsene: c’è un popolo che protesta ma non appartiene a nessuno: nessuna sigla, nessun partito, nessun movimento. Eppure è lì, milioni di persone. E i Sindacati e organizzazioni storiche devono fare un atto di generosità: animare un movimento su cui non potranno avere controllo. Dare senza apparentemente ricevere indietro riconoscimento.

Per queste milioni di persone serve una piattaforma digitale autonoma, sicura, fuori dai radar delle big tech. Serve per reclutare, formare e connettere dai 10 ai 20 mila micro-leader giovani, in grado di coordinare reti locali e mobilitare da mezzo milione a un milione di persone.

È la logica dell’organizzazione di comunità (M. Ganz, 2010), il potere come rete di relazioni, non come vertice. Ci serve una struttura a fiocco di neve e a leadership distribuita: ogni nodo crea altri nodi, ogni relazione genera potere.

Perché nessun diritto, mai, è stato conquistato chiedendo gentilmente: servono disciplina collettiva, visione, fiducia, attitudine al conflitto e l’idea, antica e nuova, che non si cambia nulla da soli. E per non essere soli, isolati, dobbiamo interconnetterci in modo intelligente.

“Ogni attivista che entra in relazione con dieci persone crea una costellazione di potere. È questo il principio del fiocco di neve: la forza cresce al crescere delle connessioni”

Come scriveva Manuel Castells, le reti oggi sono la forma primaria di potere, chi connette comanda. E senza l’uso di tecnologia sociale, siamo destinati a non avere le forze operative per durare nel tempo.

3. Forgiare narrazioni. Propaganda e immaginario utopico

La terza battaglia è culturale: oggi gli algoritmi censurano, limitano, distorcono. Meta, Google, TikTok: i nuovi ministeri della verità, sono quasi interamente in mano all’amministrazione Trump. Il rischio è che la protesta sia soffocata dalla propaganda, prima ancora di essere vista.

Serve reagire con una redazione digitale indipendente, una rete di influencer, artisti, giornalisti, designer, musicisti, performer. Non testimonial, ma costruttori di immaginario. L’arte, quando si allea con la politica, crea simboli, e i simboli resistono più delle leggi. Un movimento che non sa raccontarsi muore, quello che si racconta sopravvive e diventa mito.

Un mito utopico, che “prende senso solo se diventa narrazione pubblica e collettiva, non una pratica individuale”, capace di bucare la censura e la propaganda di governo, perché “l’arte e la cura rendono visibile ciò che il potere tenta di rimuovere”.

«Non basta avere ragione. Bisogna essere visibili, emozionanti, riconoscibili»

Dalla piazza alla storia

Ogni grande vittoria nasce da un incontro tra protesta, organizzazione e immaginario. Roma ci ha ricordato che la rabbia c’è, e che c’è una generazione pronta a usarla. Ma se non creiamo leadership, strategia e cultura autonoma, quella spinta svanirà. Il compito non è tenere accese le piazze: è trasformare l’onda in struttura, l’indignazione in potere reale. Serve coraggio, e serve conflitto.

Solo così il vento dei giorni scorsi potrà diventare una forza capace di piegare i governi autoritari e scrivere una nuova pagina di giustizia e pace.

Autore

Pietro Mensi

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