Chi paga di più la crisi climatica?

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Negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso di cause sociali e di giovani attivisti impegnati che se ne fanno carico, talvolta in maniera anticonvenzionale. Se ne possono individuare molte e in ambiti diversificati ma, se si volessero trovare le macro-categorie principali, potrebbero benissimo riassumersi in: femminismo, diritti civili e questione climatica. Si tratta di tre ambiti diversi ma molto più complementari di quel che si può immaginare perché, alla base, sono legate da un unico fil rouge, l’intersezionalità.

L’intersezionalità (dall’inglese intersectionality) è un concetto abbastanza recente ed in continua evoluzione. Usato per la prima volta nel ’89 dall’attivista afroamericana Kimberlé W. Crenshaw nell’articolo “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics”, oggi si parla di intersezionalità proprio per indicare quelle molteplici discriminazioni nate dall’incrocio di più caratteristiche.

È il caso, per esempio, di una donna con disabilità che viene ostacolata nel corso della sua vita o carriera in quanto donna e in quanto persona con disabilità, subendo per l’appunto discriminazioni di stampo sessista ed abilista. Oppure è il caso di un uomo nero e appartenente alla comunità LGBTQIA+, costretto a fare i conti sia con il razzismo che con l’omofobia. La discriminazione intersezionale si verifica laddove non è più possibile distinguere i singoli fattori e le singole peculiarità della persona discriminata che, interagendo simultaneamente, contribuiscono di fatto alla sua marginalizzazione o – in casi estremi – alla sottomissione.

A questo punto è facile intuire il legame che esiste tra femminismo, diritti civili e intersezionalità. Ma l’ambiente? Cosa c’entra in questo in questo scenario? Intanto c’è da dire che ogni discriminazione, in quanto fatto sociale, si verifica all’interno di una comunità e società con regole e sistemi altrettanto complessi. Quindi, un approccio intersezionale non può trascendere il contesto sociale e, soprattutto, non può soffermarsi solo sulle singole discriminazioni.

Ecco che si arriva alla questione ambientale: elemento di cui tutti sono responsabili e tutti ne subiscono le conseguenze, ma – ovviamente – non nella stessa misura. È chiaro che, ad esempio, le persone che vivono nella parte industrializzata, ricca e relativamente benestante del mondo siano più responsabili di chi invece vive in paesi con un PIL pro capite nettamente inferiore. Ma allo stesso tempo, anche tra le persone che vivono in occidente ci sono parecchie differenze: uno studio condotto nel Regno Unito ha infatti dimostrato che appena l’1% più ricco della nazione produce e consuma, in un solo anno, la stessa quantità di gas serra prodotta dal 10% della popolazione più povera nell’arco di due decenni.

Addirittura secondo il quotidiano britannico The Guardian e l’associazione no profit Oxfam, ben l’1% dei super ricchi è responsabile, a livello mondiale, ed emette più CO2 di quanto il 66% della popolazione più povera può permettersi di produrre.

Questi sono solo alcuni degli svariati studi che dimostrano quanto effettivamente si stia venendo a creare una sorta di “élite inquinante” corrisposta, per fortuna, da un crescente senso di giustizia climatica (concetto nato dall’intersecazione di giustizia sociale e ecologismo). A questo si affianca un altro concetto piuttosto nuovo, ma non per questo meno valido, che è il razzismo climatico. Il termine è stato coniato da Benjamin Chavis nel ’82 – afroamericano leader dei diritti civili – per denunciare quelle forme di razzismo sistemico che subiscono le popolazioni economicamente svantaggiate – che di fatto vivono in quelle nazioni maggiormente colpite dal cambiamento climatico (presenti soprattutto in Africa e Asia sud-orientale).

Tutti questi temi sono perfettamente inerenti alle questioni affrontate dall’intersezionalità, visto che il più delle volte a pagarne le conseguenze sono tutte quelle persone che già fanno parte di determinate minoranze. Tuttavia, oltre alla sovrapposizione tra ingiustizie climatiche e ingiustizie sociali, si può constatare un’altra intersecazione relativa, stavolta, alla questione di genere. Infatti, stando ai dati raccolti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) le donne sono particolarmente esposte agli impatti negativi dei cambiamenti climatici.

Secondo un’altra ricerca esposta dalle Nazioni Unite (più precisamente dall’UN WomenWatch, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere) sono proprio le donne a dipendere, soprattutto in ambito lavorativo, dalle risorse ambientali minacciate dal collasso climatico: in tutto il mondo sono più del 43% le lavoratrici legate al settore agricolo, percentuale che sale addirittura al 50% nel continente asiatico e africano. Un settore così a rischio non può che provocare il fenomeno della cosiddetta migrazione climatica (di cui si stima che l’80% di loro sia appunto di genere femminile): si tratta di persone di ogni età, costrette ad intraprendere viaggi lunghi e pericolosi, lontane dalla famiglia e troppo spesso intrappolate in dinamiche di violenza.

A proposito di violenza, diverse ricerche hanno dimostrato che, in presenza di disastri ambientali o di emergenze umanitarie, i casi di stupri aumentano vertiginosamente. È il caso di uno studio condotto nel 2017, nel quale diversə studiosə analizzando dati quinquennali di temperature e violenza in 1158 distretti sudafricani hanno scoperto che le aggressioni aumentavano del 50% nelle giornate più afose. Infatti è emerso che un’esposizione prolungata al calore ha impatti fisiologici pesanti per l’organismo, incidendo sui livelli di comfort, stabilità emotiva, benessere.

 Prima di interrogarsi sul come fronteggiare una tale situazione bisogna, però, fare le dovute valutazioni e prendere atto della posizione di potere (ahimè scarsa) che le donne hanno nel mondo. Difatti le decisioni in merito alla questione ambientale vengono prese nei paesi Occidentali dove la maggior parte dei seggi nei parlamenti nazionali è occupata da uomini (ma in generale la situazione nel resto del mondo non cambia, arrivando a sfiorare circa il 75% di seggi detenuti). Fino al 2015 le leadership mondiali dei ministeri relativi alla crisi climatica era per un buon 88% in mano a politici di sesso maschile, mentre il tasso di partecipazione femminile alla commissione della prossima COP26 sarà solo del 15%. Questo significa che le donne, oltre ad essere le più deboli ed attaccabili, sono anche tenute fuori dai processi decisionali che le riguardano in prima persona.

Eppure, sembra che qualcosa si stia muovendo nella direzione del cambiamento: sono sempre più numerose le donne che non si limitano a subire passivamente,  così come quelle che si schierano a favore dell’ambiente e  sviluppano una sorta di coscienza femminista. Oltre a scendere in piazza per protestare  o adottare stili di vita più sostenibili, molte si sono spinte ancora più in là aderendo a movimenti ben definiti (è il caso dell’eco-femminismo). Lo stesso Greenpeace ha dichiarato che la maggior parte del sostegno lo ricevono dal versante femminile: le donatrici si aggirano intorno al 50,32% (a fronte del 49,68% della controparte maschile) mentre all’interno dei loro stessi uffici le lavoratrici costituiscono il 62% dei dipendenti complessivi.   

È forse l’ambientalismo intersezionale la soluzione ai problemi di un mondo fiaccato dal patriarcato e dal capitalismo? È ancora presto per dirlo, quel che è certo è che non ci sarà nessuna vittoria transfemminista se il pianeta che abitiamo rischia il collasso.

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