A un anno dal 7 ottobre: intervista a Christian Elia

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Ad un anno dall’attacco ad Israele da parte di Hamas e del suo braccio armato, le brigate Al-Qassam, il mondo in Palestina, in Cisgiordania e in tutta la regione è cambiato. Le più di 40 mila morti in Gaza causate dall’IDF, le violenze nella West Bank e l’attuale escalation in Libano hanno avuto un minimo comune denominatore: una “scorta al genocidio” che la stampa italiana e occidentale ha perpetrato in questi 12 mesi.

Abbiamo intervistato Christian Elia – giornalista, corrispondente esteri per varie testate e scrittore insieme a Francesca Albanese del libro “J’accuse”- per comprendere parte del passato, del presente, del 7 ottobre, e del futuro di quella terra martoriata dal troppo sangue che sgorga dal fiume Giordano al mare.

Hai collaborato alla stesura di J’accuse di Francesca Albanese. La tua collega ha pubblicato un rapporto quest’anno in cui dimostra come, ai sensi del diritto internazionale, la soglia del genocidio nei confronti della popolazione palestinese sia stata superata. Che opinione hai di tutte le remore che la classe politica italiana ha nell’identificare la situazione nei territori palestinesi come un genocidio? Ritieni che sia codardia, protezione degli interessi degli alleati (dunque USA e mondo atlantico in generale), un mix di entrambe o cos’altro?

«Parto da un punto importante. Il libro era in lavorazione e chiuso il 30 settembre, quindi prima del 7 ottobre. L’idea del J’accuse nasceva dal lungo periodo di normalizzazione di ciò che subivano i palestinesi da parte di Israele e dai fatti spiegati, come hai detto tu, nei rapporti di Francesca Albanese durante il suo mandato (come Rappresentante Speciale ONU per i Territori Palestinesi Occupati, ndr.). Non abbiamo inserito un capitolo genocidio proprio perché nelle nostre carriere, giornalistica mia e giuridica sua, appartenevamo a quel gruppo di persone che, pur lucidamente condannando la costante violazione dei diritti umani che avveniva in Palestina, riteneva che non c’erano i presupposti legali per definire ciò genocidio. Cosa che invece nelle conseguenze del 7 ottobre non è solo dimostrata ma palese, evidente. E questo non lo dico per dare un valore maggiore alla nostra posizione, ma perché eravamo due persone dai profili professionali differenti che non erano d’accordo nell’usare la parola genocidio prima: apartheid sì, pulizia etnica sì, colonialismo sì ma devi poter dimostrare ciò che avviene anche superando l’emotività di ciò che accade. Ma il post 7 ottobre che continua ancora oggi sì, quello è genocidio. La Convenzione contro il genocidio, che impegna gli Stati a non compiere questo crimine, è stata idealizzata come un percorso per darsi delle norme che arrivino prima del fatto compiuto, in un contesto di diritto internazionale. Scritta prima dei fatti in Ruanda, prima della modernità palestinese. Il senso di una sovranità internazionale non è solo il punire chi compie i crimini, ma prevenirli, e questa visione del diritto nasce proprio dall’Olocausto per dare un peso al concetto “mai più”. 

Il genocidio è un percorso e un processo, che si nutre di una serie di passaggi che culminano nella deumanizzazzione di una categoria etnica e/o sociale. Un libro straordinario di Nurit Peled-Elhanan ha analizzato come i libri di testo nelle scuole israeliane avessero una costante descrizione dei palestinesi come “non persone”, ma questa idea (di disumanizzazione del palestinese, ndr.) non aveva mai raggiunto in modo plateale, come avviene ora, le più alte cariche statali e militari israeliane: le dichiarazioni post 7 ottobre del governo, delle alte sfere militari e della politica israeliana hanno un forte intento genocidiario nel descrivere quel gruppo sociale come disumani

Quando mi si dice, nel nostro ambito giornalistico, che non possiamo usare certi termini così da non orientare l’opinione pubblica lì c’è la morte del nostro mestiere. Il nostro compito è vedere la dimostrabilità di un reato, dagli omicidi ai crimini di guerra. Oggi si può dimostrare che l’operazione della IDF ha una volontà ed un impatto genocidiario nei confronti dei 2 milioni e passa di Gazawi nell’enclave Palestinese.

Perché questo pudore nell’usare la parola genocidio? Ci sono tre motivi, secondo me. Il primo è molto pragmatico, ed è legato alla sfera d’influenza e al peso di Israele sulla comunità internazionale, mentre quello palestinese è pari a zero. Il secondo è più inconscio, ovvero il vedere in Israele un frutto dell’Occidente. Accusare Israele di crimini vuol dire accusare l’Occidente di crimini, tra cui il genocidio – che noi abbiamo inventato e perpetrato per primi nella storia umana: dagli indigeni negli Stati Uniti d’America fino al Germania con i suoi due genocidi (la Namibia e l’olocausto). Il terzo è proprio sull’Olocausto, la tragedia delle tragedie, ed è diventato il cappello morale ed etico per cui Israele non può essere accusata di alcune cose. Ma a rispondere di un crimine non deve essere lo Stato nella sua interezza, ma l’esercito e la politica delle azioni che perpetuano. La bolla del terzo punto, ad un prezzo troppo alto ed inaccettabile purtroppo, forse è stata rotta, perché ora negare ciò che sta accadendo dentro Gaza e non solo è una scelta troppo faticosa». 

Tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009 avviene l’operazione Piombo fuso, e l’Idf fa a Gaza più di mille morti. A raccontare ciò per il Manifesto dalla striscia di Gaza c’era Vittorio Arrigoni. Quanto manca un giornalismo che prima di tutti ricordi il “restiamo umani”?

«Questa domanda tocca un punto di grande contraddizione ed ipocrisia. Questo giornalismo non manca, ma viene usato solo per temi in cui il lettore si può riconoscere umanamente per vicinanza e capacità di immedesimazione. Facciamo egli esempi. La foto di Aylan Kurdi, bimbo siriano di 3 anni morto sulla spiaggia turca, parla di una storia che raccontata in quel modo ha provocato commozione e sdegno rispetto al dramma della migrazione. Le decine di migranti che muoiono in prossimità delle nostre coste, tra Lampedusa, Libia e Malta, ormai non fanno più notizia. Centinaia dei bambini palestinesi sono morti da inizio anni 2000 nelle varie operazioni condotte dall’IDF e nessuno muove un dito. Abbiamo assistito all’aggressione russa in Ucraina, e giustamente alla popolazione civile ucraina è stato riconosciuto il senso di umanità che avviene nei confronti delle vittime. Tutto ciò è negato ai palestinesi (e non solo ai palestinesi). Questo è legato al quel retropensiero intrinseco della mancanza di umanità che quando ho incominciato a raccontare della questione palestinese non mi era passata dinanzi. 

Su questo Vittorio (Arrigoni ndr.) lucidamente aveva capito. Eravamo amici e colleghi, scriveva per il giornale che dirigevo e nelle nostre discussioni accese su cosa dovesse essere un giornalista e chi un attivista, che ricordo con enorme nostalgia, lui ci aveva visto lungo su come sarebbe avvenuta una “palestinizzazione” della società. I palestinesi morti sono numeri, i migranti morti sono numeri, le tragedie in Africa sono numeri, ed il giornalismo non deve restare umano per motivi di tenerezza emotiva. Il giornalismo deve restare umano perché è il suo lavoro. Deve essere il watchdog del potere, di cosa è realmente un’aggressione, un conflitto, un genocidio. In qualunque scuola di giornalismo si insegna che in una zona di guerra le note dell’esercito sono le ultime fonti da prendere in considerazione, mentre in Italia la stampa per un anno ha preso come assodate e vere le dichiarazioni dell’IDF. Una roba incredibile. Quella deumanizzazione del racconto nasce anche da un declassamento delle persone. Quel “restiamo umani”, lo continuo a dire, non è solo una questione emotiva: è il lavoro dei giornalisti, che devono superare il racconto del potere. E il razzismo ha abbassato la qualità del nostro lavoro. Perché cento morti in Congo non fanno notizia. Dovremmo sederci un attimo e dirci che società stiamo diventando, o già siamo diventati».

Lo scorso dicembre il NYT pubblica un articolo in cui, sulla base di documentazioni e interviste raccolte, afferma che Israele era a conoscenza del piano dell’attacco del 7 ottobre. Ad oggi ne sappiamo di più? O è una teoria del complotto o una volontà di narrazione specifica della vicenda? Se fosse vero che Israele ne era a conoscenza (come è lecito pensare, visti i vanti passati del Mossad), secondo te c’è stata una volontà, da parte del governo israeliano, di porsi come vittima per giustificare agli occhi delle altre potenze internazionali (se non ai sensi del diritto internazionale, quantomeno a livello “morale”) le azioni perpetrate in seguito? 

«Sono abituato a praticare un giornalismo che non ha problemi a dire le cose come stanno se si possono confermare in base a fatti oggettivi. Ho lavorato per un anno e continuo a farlo per provare a comprendere cosa è accaduto il 7 ottobre. Ed è molto difficile. Ma possiamo vedere dei fatti, precisamente tre.

Il primo è di tipo politico. L’arrivo dei coloni al potere ha modificato la gestione territoriale del territorio. All’alba del 7 ottobre gran parte delle forze militari israeliane erano in Cisgiordania/West Bank per proteggere i coloni illegali e arrestare palestinesi, per sostenere le azioni di questi movimenti sionisti fanatici. Il fronte Sud attorno a Gaza era sguarnito, sostanzialmente.

Il secondo motivo è pratico. Le truppe israeliane erano da anni abituate ad una guerra in cui avevano una superiorità tecnologica enorme rispetto ai gazawi, e da tempo non affrontavano un gruppo addestrato e armato (come erano le brigate Al-Qassam in quel giorno).

A questo si aggiungono delle questioni sottobraccio. Le testimonianze degli abitanti dei kibbutz, anche videodocumentate, si basano sulla non presenza delle truppe durante gli attacchi di Hamas e quindi la mancanza di difesa nei confronti degli israeliani in quella giornata. Ed ecco il collasso militare di quella data. Aggiungiamoci le tensioni che vanno avanti almeno dal 2018 tra le forze militari e il governo centrale in Israele, soprattutto dopo le riforme portate avanti dai movimenti dei coloni con una legge che ha definito Israele “la patria degli ebrei”, e che ha portato alla non coscrizione in Israele dei cittadini arabo/palestinesi all’interno del loro esercito. Non solo l’oltre 20% della popolazione israeliana è formata dagli eredi della Nakba del ’48, ma immaginate di far fuori uno dei pilastri dell’esercito, i drusi. In ogni parte del mondo, le forze armate sono in parte sempre formate dagli strati sociali ed economici più poveri. E questo ha creato una tensione enorme, perché i vertici israeliani militari non hanno mai condiviso l’idea di passare la loro vita a proteggere i coloni, ma obbiettivi esteri ed esterni come Hamas, Hezbollah ed il Libano, l’Iran. Questo per alcuni osservatori è la resa dei conti tra l’ala militare e l’ala politica israeliana. Prima del 7 ottobre ogni sabato centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza contro il governo israeliano. Non rispetto alle violazioni dei diritti umani in Gaza, ovviamente; ma in ogni caso vedere il Capo di stato maggiore essere intervistato lì in piazza contro il governo centrale fa effetto. È quasi roba da colpo di Stato, una lacerazione tra le istituzioni. 

Il terzo motivo si ammala quasi di complottismo, ovvero di avere bisogno di un evento scatenante per una soluzione finale. Mi ricorda molto, perché già facevo questo mestiere all’epoca, un pezzo delle reazioni post 11 settembre e l’attacco di Al-Qaeda. Secondo me è un’ipotesi non solo indimostrabile, ma che ci allontana dai problemi reali. Che ci fossero pezzi di intelligence israeliana ed egiziana, grande collaboratrice di Israele, che sapevano di movimenti all’interno di Gaza, certo. Che alcuni membri di Al-fatah, e dell’ANP, nel passare briefing ad Israele evidenziavano l’agitarsi all’interno dell’enclave palestinese, assolutamente.

Quindi cosa è accaduto? La tempesta perfetta, perché tutta una serie di tensione interne ed esterne tra la Palestina ed Israele sono venute alla luce e si sono incastrate. Senza fare semplificazioni e/o complottismo sul 7 ottobre. La tracotanza dell’infallibilità del Mossad e dello Shin Bet, dovuta dalla enorme superiorità tecnologica, ha fatto sentire al sicuro le autorità israeliane rispetto alle minacce esterne. Non c’è una risposta unica, e se ci sarà verrà trovata con una commissione d’inchiesta da parte d’Israele – cosa che potrà accadere solo dopo la fine delle loro operazioni. 

Israele è nel momento più critico della sua storia, dal ’48 ad oggi. È un vulcano che sta scoppiando sempre di più. Tutte le faide interne sono ormai nodi venuti al pettine. Ma la sua totale esplosione non avviene per la costante vicinanza, e quindi aiuti, da parte degli USA, senza i quali sarebbe uno stato fallito.

Una cosa possiamo dirla. Ormai molti colleghi, nel raccontare le esplosioni dei cercapersone in Libano, hanno posto il focus sulla “destrezza” dell’intelligence israeliana, ma non hanno detto che è stata l’ennesima strage di civili senza senso, perché far esplodere la gente al supermercato o all’ospedale è un crimine efferato. Di nuovo uno storytelling a favore della grande del Mossad, mentre la letterata scientifica sul tema ha da sempre dimostrato come il Mossad non è perfetto (come tutto ciò che è gestito da esseri umani)».

Il terrorismo si distingue per l’uso di una violenza premeditata, politicamente e/o ideologicamente legittimata, perpetrata contro obiettivi civili di nazionalità o di gruppi etnici diversi da chi compie queste azioni, e si fonda su importanti aspetti psicologici e di propaganda. È un mezzo criminale per raggiungere scopi politici. Perché condanniamo solo certi terrorismi e non altri nel corso della storia moderna? Se “siamo tutti uguali dinanzi alla legge”, dove finisce il potere del diritto e inizia la legge del più forte?

«La definizione di terrorismo ti racconta la storia degli ultimi anni. Nel senso che fino al mondo degli anni ‘90 nessun giornalista e analista avrebbe avuto grossa difficoltà ad identificare ciò che era terrorismo e ciò che non lo era, perché il mondo era diviso in grammatiche precise anche a causa della guerra fredda. Una lotta contro il colonizzatore è una cosa, una lotta per sovvertire il potere costituito è un’altra. La nebulosa diventa insopportabile dal 11 settembre 2001. Il 12 settembre del 2001 le più grandi testate intitolano con “Atto di Guerra”, una rivoluzione semantica. Non c’era alcun atto di guerra contro gli States. C’era un gruppo, Al-Qaeda, che aveva compiuto un attentato pazzesco.  E le invasioni militari post 9/11 hanno stravolto e destabilizzato in maniera brutale una regione. Se oggi abbiamo il Sudan, l’Iraq, l’Afghanistan, abbiamo devastato un equilibrio. Quel pezzo di mondo si basava su dittature terribili? Vero. Ma il terrorismo e la lotta ad esso è stato giustificato da azioni belliche che non aveva alcun senso collegare con singole entità come Al-Qaeda. Un clima di tensione che ha portato a definire terrorismo anche movimenti di protesta che nulla avevano a che fare con ciò, come certa giurisprudenza ha fatto nei confronti dei movimenti NoTav etc. Il terrorismo è diventato una categoria di senso, usato dalla società per giustificare delle azioni criminali per abbattere regimi dittatoriali che ci sono avversi (quando poi con regimi simili, ma non avversi, come l’Arabia Saudita, non ci poniamo questo problema). 

Se riportiamo questo alla questione palestinese, è ancora più evidente l’ipocrisia di fondo. L’esercito più morale del mondo per autodefinizione, l’IDF, dell’unica democrazia del Medio Oriente, per autodefinizione, nasceva da movimenti come l’Irgun che non avremmo avuto problemi a definire terroristi. Capisci che ormai è palese che la parola terrorismo è politica e non ha riferimento alla realtà. Ariel Sharon, nell’intuire ciò, transita la questione palestinese e il colonialismo alla guerra al terrorismo e i media occidentali seguono questa logica.  Da qui il passaggio in cui l’analisi della Lotta di liberazione palestinese, che sottolineo, con metodi che vanno giudicati da volta in volta, si sposta ad un “framework” diverso. Si giudica il singolo episodio, ma non il quadro. E noi stiamo escludendo il quadro. Il nostro mestiere questo dovrebbe essere, spiegare il quadro che porta all’opera. Per noi, per me e Francesca Albanese , il 7 ottobre è un’azione di guerra e lo spieghiamo nel nostro libro J’accuse. Le brigate Al-Qassam sono l’esercito de facto di uno Stato de facto, ovvero la Striscia di Gaza governata da Hamas. Le azioni che sono state compiute in quella giornata sono classificabili come crimini di guerra e crimini contro l’umanità ed i responsabili devono essere processati e pagare per ciò che è successo, ma non per terrorismo, che è una cosa  diversa. Perché queste azioni avvengono nell’ambito di una lotta di liberazione nazionale. E lo dirò fino a che avrò fiato in corpo».

Il Likud di Netanyahu discende dalla visione di Begin e dell’Irgun. Durante il mandato britannico aveva come fine ultimo e scopo primario la costruzione del Grande Israele, ovvero una territorialità israeliana dal Mediterraneo al Giordano, passando per la penisola del Sinai e pezzi del Libano, della Siria e della Giordania. Perché nonostante la palese ideologia criminale tutto ciò ha appoggio in Occidente, in Europa e il mondo arabo è in parte silente?

«Quello che dobbiamo capire è che il movimento di liberazione palestinese nasce quando il tradimento arabo è palese. Anche qui, precisiamo. Non è che se sei egiziano, devi essere ProPal. Perché tante volte ciò è diventato un alibi nei confronti dei comportamenti israeliani. Spesso, nelle presentazioni che abbiamo fatto io e Francesca Albanese, ci veniva detto “perché i palestinesi non li vuole nessuno? Perché gli arabi non fanno qualcosa?” Ma questo è un secondo punto. 

Il primo è l’occupazione e la violenza che Israele perpetra dal ’48. Bisogna essere sinceri: come Occidente abbiamo appoggiato alcuni dei peggiori sistemi dittatoriali mondiali. Mubarak prima e oggi Al Sisi, Pinochet, Gheddafi fino a quando era comodo, e non ci facciamo alcun problema ad avere la Turchia nella Nato nonostante i Curdi. Dinanzi alla realpolitik abbiamo istituzioni per fare qualsiasi cosa per avere stabilità, soprattutto in Medio oriente, tutto perde il senso nell’analizzare la nostra visione di quella sfera di mondo. 

Se tu mi chiedi il più grande cambiamento a cui io abbia assistito rispetto alla Palestina è quello per cui l’UE non è più un’alternativa geopolitica agli USA per la mancanza di coerenza tra i valori professati e le azioni prodotte. Questo ha generato un vuoto immaginario che verrà riempito, e non sappiamo come. Vuoto che nasce dal nostro privilegio bianco rispetto ai momenti e corsi storici esterni alle nostre mura autocostruite. Rompere le narrazioni è la più grande legge antiterrorismo e di comprensione di ciò che ci circonda che noi possiamo fare».

Gli accordi di Oslo del 1993 avevano un punto dubbio, in particolare rispetto al settimo comma dell’articolo 31: “Nessuna delle due parti prenderà iniziative che comportino il cambiamento dello status della Cisgiordania o della Striscia di Gaza prima dell’esito dei negoziati sullo status permanente“. Oslo muore con la morte di Yitzhak Rabin il 4 novembre del 1995 per mano di estremisti religiosi legittimati dalle politiche di Netanyahu e di Ben Gvir. Il pragmatismo di prima è stato sostituito da radicalismi che si appoggiano alle religioni: così non muore la politica?

«Bellissima domanda. Oslo nasce morto, nel senso che è figlio di una cultura sbagliata dall’inizio. Palestinesi e Israeliani non si sono mai seduti ad un tavolo internazionale da pari, ma in una posizione di subalternità che uno imponeva all’altro.  Perché Arafat, sedendosi a quel tavolo, accetta che le questioni bollenti come la diaspora, la proprietà palestinese espropriata, l’acqua, i territori palestinesi, fossero una scatola. Quel meccanismo che dici tu è vero e l’emergere delle formazioni che noi riteniamo frutto di una cultura non confessionale e non laica va analizzato bene. Hamas non è Al-Qaeda, e più simile ai movimenti cattolici che in Europa avevamo nel secolo scorso. Questo perché puoi trovarci dal fanatico al riformista e quindi modi di intendere la politica diversi. Cosa ha portato Hamas ad essere l’unico punto di riferimento rispetto alla causa palestinese? Dopo le elezioni del 2006 l’UE, che aveva ritenuto essere le elezioni più democratiche nella storia palestinese, nel vedere che era stata eletta Hamas, decide di definirle come farlocche. Quando decidi chi può essere il tuo interlocutore politico e partitico, tu decidi di perdere la politica e quindi la possibilità del pragmatismo, perché decidi tu di imporre ad un popolo chi può votare o meno, e di non permettergli una vera e propria libertà democratica. Quando finirà l’apartheid e l’occupazione, si vedrà come l’orizzonte palestinese da un punto di vista partitico e politico sarà molto più denso e vario di ciò che è ora. Vittorio Arrigoni già nel 2011 raccontava dei movimenti palestinesi che si definivano “né con al Fatah e nel con Hamas” repressi da entrambi. Senza una libertà sociale non ci sarà mai una libertà democratica. Per fare un parallelismo, la nostra costituzione non nasce nel ‘44 – e quindi nel pieno della guerra –  ma nel 48. Lì a Gaza magari fossimo nel ‘44, siamo nel ‘39. Anche qui, dare un giudizio sulle dinamiche politiche di una popolazione oppressa, per usare un eufemismo, è prematuro».

Hai appena detto che siamo come nel ‘39 in Palestina. Siamo forse a uno dei punti più lontani da un dialogo tra le due parti per un cessate il fuoco e per una soluzione diplomatica della questione. Alcuni ambienti, forse più idealisti che pragmatici o forse semplicemente perché non osservano quello che davvero sta accadendo in questi mesi (se non anni) di guerra, parlano ancora oggi di soluzione “due popoli, due Stati”. Secondo te, realisticamente, è o sarà possibile raggiungerla? Oppure quali altri scenari ti immagini o ti aspetti?

«Rettifico, forse siamo negli anni ’20. Presupposto: io ho la sensazione pesante, anche a livello umano, di raccontare una tragedia senza uscita da 20 anni. Perché non c’è guerra in cui non abbia perso amici o amiche in questi anni. Ma non dobbiamo mai perdere la bussola rispetto alla volontà di poter porre fine ai massacri e trovare la soluzione ai conflitti. Dobbiamo tenere aperta la questione palestinese, e una soluzione si può trovare. Finalmente, ma per un prezzo troppo alto, è sotto gli occhi di tutti che la soluzione a due popoli e due stati è impossibile. Ho avuto discussioni molto accese con dirigenti del PD e subito gli ho contestato questa posizione. Chiedevo: benissimo, ma come facciamo con 750 mila coloni? Perché se hanno un piano che usi un sistema coercitivo per spostare quei coloni, è un piano basato sul nulla. Allora, quello che posso dire, è che ciò che si può fare non avrà valore e durata se i palestinesi non potranno liberamente decidere. Io immagino che con un confine in più le soluzioni non funzionano, vedi la Jugoslavia. Io voglio sognare una Palestina in cui le libertà civili e sociali siano garantite per tutti, con le dovute difficoltà del caso. Perché immaginare che il tuo oppressore all’improvviso diventi tuo amico è complesso a dir poco. Il modello sudafricano è un esempio. Pure Mandela diceva “noi siamo liberi solo se i palestinesi sono liberi”. Quando c’è la volontà diplomatica, le soluzioni si trovano. Ma ciò pure accadere solo con i due ingredienti spiegati prima: la fine delle violenze in Cisgiordania e Gaza e la libertà democratica dei palestinesi di scegliere i loro rappresentanti e interlocutori».

Autori

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

Letizia Sala

Letizia Sala

Autrice

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