Patriarcato e dieta

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Ho recentemente iniziato una dieta vegetariana, unendomi alle tante persone che trovano sempre più difficile sostenere un’industria come quella della carne, che, come noto, presenta varie storture etiche, ambientali e via discorrendo. È una scelta minoritaria: il consumo di carne rimane centrale nella tradizione occidentale: in Europa se ne mangiano più di 3000 chili al giorno, assieme a 500 chili di pesce.

La cucina italiana non fa eccezione ed è caratterizzata da una forte presenza di entrambi; le popolazioni vegetariane e vegane sono pochi punti percentuali del totale, nonostante un aumento delle notorietà relative. 

Non avendo conoscenze dalle quali farmi aiutare nell’adottare una dieta vegetariana, ho deciso di affidarmi a Internet per orientarmi: ho scoperto un discorso polarizzato, intransigente, nel quale la dieta è parte di identità granitiche, di ideologie chiare, in particolare per quanto riguarda il genere. 

Riflettendoci, c’è poco da essere sorpresi: un atto quotidiano come il mangiare gioca un ruolo importante nel definire un individuo, rivelando molto di più dei semplici gusti personali in materia di cibo. Essendo la nostra una società patriarcale, ed essendo il patriarcato un agente trans-storico, non è strano notare come anche l’alimentazione presenti una separazione, un binarismo di genere. 

La divisione risale alla preistoria e alla rappresentazione che ne viene fatta, che vede gli uomini come cacciatori e quindi più vicini al mondo della carne, le donne impegnate nel raccoglimento e nei compiti di cura, affiancate a frutta e verdure, in una sorta di genesi del binomio breadwinner-caregiver. Questo schema arriva fino ai giorni nostri, dove vari agenti di socializzazione perpetuano un’immagine definita del cibo e del genere nel cibo, uno su tutti la pubblicità. 

Pubblicità, cibo e genere

Gli spot riguardanti la carne hanno un linguaggio preciso, contraddistinto da un immaginario fatto di brace, fuoco e decisionismo, che ha nel maschio eterosessuale il target. 

Nel 2006 Burger King lanciava uno spot intitolato I am a man, in cui un uomo abbandonava una cena galante, rifiutando un piatto di quello che definisce chick food (chick è un sinonimo non lusinghiero di ragazza), per poter godersi un hamburger e ribadire il proprio essere uomo. In Italia, una nota azienda di salumi pubblicizzava i propri prodotti con una serie di spot accomunati dallo stesso claim: «l’uomo è cacciatore», rimandando ad un’immagine di una mascolinità predatoria, che caccia sia la carne sia la donna.

Invece le pubblicità che promuovono abitudini alimentari più sane sono popolate da donne alla ricerca di prodotti healthy, utili ad un ideale di vita preciso, fatto di snellezza e pance piatte; rappresentazioni in cui si fa fatica a trovare spazio per gli uomini. 

Il linguaggio attorno al mondo del cibo è quindi un linguaggio con un determinato codice sessuale, legato a identità precise. Parlava di questo negli anni Cinquanta Levi Strauss, con il suo triangolo culinario. Tra i vari spunti offerti, nell’opera si afferma che il cibo bollito tende a essere associato con il focolare di casa e contesti di intimità familiare, nei quali chi cucina è perlopiù donna. Di contro, la cucina arrosto, e quindi la carne, rimandano a festività pubbliche, eventi collettivi spesso al di fuori delle mura domestiche, nel quale è l’uomo il responsabile. Se Levi Strauss faceva l’esempio del barbecue americano, ognuno di noi può portare svariate testimonianze di conoscenti mai visti ai fornelli ma in prima fila nel momento in cui c’è da grigliare.

Ancora, nel 1990 veniva pubblicato il saggio The Sexual Politics of Meat, scritto dalla femminista statunitense Carol J. Abrams, in cui si afferma come cosa, o meglio, chi mangiamo è definito anche da logiche patriarcali, in un’idea di dominio fatta di oggettificazione, consumo e frammentazione del corpo: tanto della donna quanto dell’animale. Normalizzare condotte violente che legittimano una precisa attività di consumo e, di conseguenza, di uomo. 

Alt-Right e identità carnivora

Eppure, leggendo su Internet, esiste una realtà che vede il mangiare carne come un tratto centrale della propria identità, come un luogo di resistenza. Sono esponenti di gruppi associabili, da un punto di vista politico, con il conservatorismo. 

Si va dagli esempi più eclatanti, come la dieta di Donald Trump, che, stando ad un suo ex collaboratore, ogni cena trangugiava due Big Mac e due Filet-O-Fish, a situazioni meno note, ma altrettanto radicali. 

È il caso dell’Alt-Right, un eterogeneo movimento di estrema destra statunitense, con varie riproduzioni nel resto del mondo, attivo perlopiù in rete e contraddistintosi per essere punto di incontro di varie sottoculture unite dall’intolleranza e la discriminazione, come il suprematismo bianco e gli incel.

Alcune delle menti di riferimento dell’Alt-Right sono Jordan Peterson e Joe Rogan, che, seppur non parte del movimento, sono stati elevati a maître-à-penser, a causa di una visione del mondo che è un misto di mascolinità, teorie del complotto e conservatorismo. 

Entrambi hanno più volte affermato di aver adottato diete carnivore: dal 2020 in poi, ogni gennaio Rogan intraprende un’alimentazione meat-only per 30 giorni (ambienti che professano le bontà di una dieta carnivora hanno definito gennaio come world carnivore month); nel 2018 Peterson, ospite proprio del podcast di Rogan, ha affermato come iniziare una dieta simile abbia migliorato in maniera netta la sua salute, aiutandolo a superare la depressione, l’ansia, il reflusso gastrico e altri malanni minori. 

Entrambi esaltano una figura maschile che fa del consumo di carne e dell’immaginario che ne consegue parte della propria identità. Lo fanno a prescindere dalle evidenze scientifiche, basandosi sulla mera esperienza personale, in ottemperanza al complottismo tanto in voga nella destra contemporanea, secondo cui un ritorno alle origini, a fantomatiche abitudini ancestrali, è sinonimo di benessere.

L’alimentazione diventa un ribadire (e un aggrapparsi a) una visione del mondo conservatrice, che utilizza una precisa idea del passato per orientare e tutelare la propria posizione nel presente, che, nel caso specifico, è quella di individuo maschio che gode del privilegio patriarcale e vive come ingiustizia la messa in discussione di questo privilegio. 

E quindi, il contraltare di una dieta carnivora sono veganesimo e vegetarianesimo, colpevoli di minare parte della costruzione del mito maschile.

La soia, centrale in questi approcci alimentari, diventa un simbolo e un termine dispregiativo: soyboy è un epiteto con il quale appellare quei maschi che si definiscono a favore di argomenti quali femminismo, antirazzismo ed equità sociale, istanze viste non tanto come parte di un ideale quanto come attacchi a sé stessi, come se la loro “de-mascolinizzazione” fosse in qualche modo contagiosa e quindi da ostracizzare. 

In un paradosso tipico del rapporto fra patriarcato e giovani d’oggi, l’idea che il mondo sia a disposizione del maschio e la convinzione di non essere influenzati dal proprio genere si scontra con la particolarità del singolo, dalla frustrazione che deriva dal non poter ricalcare i dettami di un modello opprimente. Questa frustrazione si riversa poi non sul modello, ma su chi lo rifugge. 

Il caso italiano: la sovranità alimentare

La questione, beninteso, non riguarda solamente gruppi eterogenei come l’Alt-Right, ma arriva anche ai vertici dei partiti di destra occidentali. Il caso italiano è un ottimo esempio. Quante volte, negli ultimi anni, Salvini ha utilizzato il cibo per diffondere il proprio messaggio politico? Un piatto di pasta al ragù, un panino al salame, sfottò ai vegani diventano strumenti per comunicare una visione del mondo. 

Questa pratica passa poi dai social alle istituzioni: nel neonato governo Meloni il Ministero dell’agricoltura diventa Ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare, accogliendo la richiesta del presidente di Coldiretti, Ettore Prandini.  

Nel pratico, cambia poco; il cambio di nome sembra avere lo stesso fine delle stories del ministro dei trasporti: fare propaganda. In questa direzione pare ascrivibile la scelta della Presidente del consiglio di firmare la petizione contraria al cibo sintetico (perlopiù la cosiddetta carne vegana) lo scorso ottobre: un atto simbolico e nulla più. 

L’intenzione è chiara: non tanto proteggere le famose eccellenze italiane, già ben difese dall’attuale sistema, fra marchi Dop, Igp e Stg, quanto usare il cibo per affermare un’ideologia, una struttura sociale. In un momento storico di polarizzazione perpetua, il discorso sull’alimentazione non fa eccezione: problemi complessi sono approcciati con slogan e spot, il voler distaccarsi dal modello patriarcale visto come poserismo e mancanza di virilità. Decidere di non vedere la complessità è una decisione, un approccio, di cui la destra è consapevole. 

Autore

Faccio grande fatica a prendermi sul serio, quindi scrivere una bio é un po’ difficile. Il mio film preferito é Bronson.

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