È arrivato finalmente il momento di chiarire tutte quelle locuzioni che vediamo scritte ovunque, che vediamo tatuate, sbandierate, urlate sui social, dedicate a qualcuno. Rendiamoci più consapevoli di una lingua e di un contesto ben preciso che hanno portato gli autori ad affermare qualcosa, senza che vengano fraintesi.
Le parole sono importanti, e a renderle tali c’è qualcosa che va al di là della fama ottenuta dopo: maneggiamole con cura.
«Carpe Diem» – Orazio, Odi I,11, 8, esortazione a Leuconoe
Partiamo, per questa profondissima locuzione latina, dalla traduzione erroneamente diffusa: Cogli l’attimo.
In latino per rendere il concetto di “prendere” viene impiegato il verbo capio, cioè “afferrare, cogliere, ottenere”; ben diverso dal verbo scelto dal nostro amico Orazio. Credete sia un caso? Affatto, nulla è mai casuale in una lingua che è attenta perfino a distinguere l’altro fra molti e l’altro fra due (rispettivamente alius \ alter).
Il poeta usa l’imperativo Carpe, dal verbo carpere: “strappa”. Come un cerotto, come le piante dal terreno. Strappa questo giorno e non fidarti troppo del domani.
Ma qual è il terreno di fondo? Da cosa sdradicare cosa? Secondo Orazio, il vero filosofo si trova in una condizione di sereno equilibrio, meditazione, al riparo nel vivere moderatamente. Conquistando la saggezza, egli diviene profondamente appagato da ciò che ha, lontano dalle passioni e dalle pulsioni interne.
Non cogliete perciò l’attimo, ma strappate il giorno dalle possibili distrazioni. Non vivete di pancia, ma ragionate di testa. Non buttatevi a capofitto, ma studiate la possibile caduta.
Se pensate ad Orazio come un saggio professore che incita una classe collegiale a stracciare pagine di un libro sulla scia del «Capitano, mio Capitano» de L’ Attimo Fuggente, vi sbagliate di grosso. Orazio non invita banalmente al godimento, non ci sta spingendo nella mischia, non si affida al cieco vivere e non ci vorrebbe ubriachi lerci a fine serata perché a forza di carpare il diem ci siamo fatti riaCCarpare dal pavimento. Il piacere è effimero, caduco e fugace e l’uomo che vince è colui che si protegge da queste debolezze, non sposandole in virtù del momento. Sembra un invito alle nozze con l’attimo presente, ma in realtà è un preavviso per un possibile – ma evitabile – funerale col domani.
«Omnia Vincit Amor Et Nos Cedamus Amori» – Virgilio, Bucoliche X, 69
Dieci componimenti in esametri, detti al singolare “egloga” – letteralmente “poemetto scelto”, perché scelti, pensati, ragionati a fondo prima di farli finire nel baratro delle nostre storie su Instagram- compongono le Bucoliche. Opera di Publio Virgilio Marone, che i maroni se li è rotti davvero a forza di venir frainteso, in cui l’ingenua protagonista è la campagna e chi vive in questo paesaggio, illuminati dalla dolcissima poesia.
L’ Omnia Vincit Amor è l’ultima egloga, amara chiusura della raccolta, che ci mostra il dolore, l’affanno e la disperazione di Cornelio Gallo, amante infelice che scopre l’abbandono della sua bella Licoride per un altro. Reazione compostissima e moderata, quella del pover uomo, che decide di lamentarsi tra i monti d’Arcadia, arrivando a dover far intervenire perfino Apollo, impressionato dal continuo pianto. Gallo però non smette, non si calma, non accetta la fuga e rifiuta la lontananza e sfoga la sua rabbia incidendo sui tronchi degli alberi i suoi canti di dolore. Per smettere di pensare alla delusione d’amore e distrarsi si dedica anche alla caccia, ma finirà per ammazzare le sue stesse speranze. Non lo ha salvato, dunque, nemmeno la cara poesia che fa calare un velo di dolore sugli ultimi versi dell’opera: l’amore vince ogni cosa e noi cediamo all’amore.
E quando Virgilio scrive vincit intende proprio l’azione di abbattere, sconfiggere, vincere qualcuno, come in battaglia. Ma a perdere siamo noi.
Facciamo attenzione, quindi, prima di leggerla in chiave romantica, perché l’autore aveva in mente un sentimento che svuota, che arreca danno, che fa squarciare i tronchi d’albero e non si rassegna ad un addio. Se cediamo all’Amor, se ci abbandoniamo a questo, lo riconosciamo come temibile e fuori dal nostro controllo. Per Virgilio è causa di tragedia, non caption per le foto di coppia.
Perciò ricordiamo che Cornelio assaggia sì l’amore folle, ma è quel tipo di amore che causa indigestione. E io eviterei di augurarvi il Brioschi.
«Cogito Ergo Sum» – Cartesio, Discorso sul metodo, 1637
Cartesio, per gli intimi René Descartes, filosofo razionalista del ‘600, passa alla storia per la celebre locuzione: Dubito dunque penso, penso dunque sono.
Il motto è divenuto bandiera per tutti coloro che credono che il pensiero umano sia al centro di tutto e che proprio in virtù della razionalità siamo un qualcosa. Idea, questa, che mi sembra essere alla base di un tranello molto semplice: Chi lo tatua, l’aspetti. Quello che Cartesio voleva intendere è molto semplice: non siamo grandi perché pensiamo e quindi siamo, anzi.
Nella realtà convivono tre sostanze diverse: corpo, pensiero e Dio (il famoso “triangolo metafisico”), in cui proprio grazie a quest’ultimo è garantita l’unione tra corpo e pensiero. Cioè, mi rispiego: per Cartesio, senza la divinità di base non saremmo nemmeno persona. Niente. Nulla. Non ci importa nemmeno del cogito, il pensare, perché il perno è il dubito. Senza questo, il pensiero non si dà.
Non esistiamo perché pensiamo ma esistiamo perché siamo esseri che dubitano. Posso avere solo una sicurezza: dubito di tutto tranne del fatto che sto dubitando. Quindi ci sono.
Il pensiero che si spaccia per fondamento è un pensiero che è fragile, che “non sa distinguere il sonno dalla veglia”, che è debole, che non sa cosa sia vero o no. Non si fida nemmeno delle scienze universali, non salva se stesso ma salva l’idea di poter mettere in discussione tutto, perciò vacilla, sospetta, diffida. Vantarsi del cogito significa ammettere la debolezza dei pensieri, altro che affermarne la forza! Quindi, consiglio: meglio un Cartier finto che un Descartes vero.
Badiamo bene che queste locuzioni sono molto più profonde della realtà che le ha sminuite e che per cause diverse ne ha alterato il significato. Portiamole avanti nel nostro parlare ma custodiamole dignitosamente. Usiamole, perciò, per rafforzare il loro valore, per sentirle davvero vicine, per coglierne il vero senso.
Usiamole, perciò, una tantum (che si traduce con “una volta soltanto” e non con “una volta ognitanto”) con il loro significato originario!
Autore
Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.