Nella sua vita, Oriana Fallaci non ha incontrato molti uomini. Con Uomo intendo la definizione che lei ne fa dopo essere stata la prima ad incontrare Alekos Panagulis, appena uscito dal carcere, nel 1973, dopo aver attentato alla vita del dittatore greco Papadopoulos:
«Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per te cos’è un uomo?» «Direi che un uomo è ciò che sei tu.»
O, Fallaci, Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 1981, p.653
C’è sicuramente un altro Uomo nella vita di Oriana, che ha definito scomodo. Nell’ottobre del 1966, lo vede comparire a New York. Lo presento in questo articolo come Oriana decise di presentarlo per quello che pubblicò lei, con il titolo: Un marxista a New York.
Eccolo che arriva: piccolo, fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni, amarezze, e vestito come il ragazzo di un college […]. Non dimostra davvero i quarantaquattr’anni che ha. Per ritrovarli, quei quarantaquattr’anni, deve andare verso la finestra dove la luce si abbatte spietata sul viso e schiaffeggia quegli occhi lucidi, dolorosi, quelle guance scarne, appassite, la pelle tesa agli zigomi fino a rivelare il suo teschio […]. La notte scappa agli inviti e se ne va solo nelle strade più cupe di Harlem, di Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi problemi, i suoi gusti, e all’albergo di Manhattan torna che è l’alba: con le palpebre gonfie, il corpo indolenzito dalla sorpresa di essere vivo.
O. Fallaci, Pasolini un uomo scomodo, Milano, Rizzoli, 2015, pp.37-38.
Il dolore per la vita e il fascino per la morte. La poesia come appiglio e infine come condanna inutile. Un’opera incompleta, Petrolio, come la sua opera più completa, perché lontana dal potere gregario del Potere. Un Uomo che ha fatto della sua vita l’opera più riuscita, e per questo più tragica. Un Uomo che in quegli anni, negli anni ’60, rivendica la denuncia, la resistenza al potere, la voglia di buttarsi nella lotta in difesa della sua Italietta; per poi arrivare all’estate del 1971, e al crollo di certezze. Non serve più combattere. Con un processo di decostituzione della sua opera, che è la vita, quest’Uomo si ripiega su di sé. Non abbandona le critiche nei confronti della società, ma sono ormai cause perse, constatazioni a posteriori di una sottomissione omologante, che da martire ha cercato di condannare fino alla fine.
Pasolini, poeta delle cose e corpo gettato nella lotta
Un Uomo che aveva creduto molto nella sua lotta, considerando l’azione come vita. Aveva girato La Rabbia, uno spaccato sulla realtà dei nostri tempi, presentata da ogni punto di vista sociale e geografico, con commento talvolta poetico e talvolta severo. Aveva voluto proteggere e indagare l’Italia “dell’età del pane” con Comizi d’amore. Aveva dato parola ad un’Italia intera, con interventi di Oriana Fallaci, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti fino a quelli delle timide ragazze siciliane e dei contadini della Romagna. Quest’Uomo guarda alla realtà come un linguaggio da decodificare, un linguaggio che inizia ad essere, però, comandato, assoggettato. Vuole in tutti i modi proteggerlo, ma sembra la sua opera totalmente vana. In Nuova poesia in forma di rosa, si dice essere «un non addetto ai lavori» della nascita di questo nuovo corso della storia. Si rende conto che tutto stesse cambiando, e si rende conto che stesse scomparendo l’idea dell’Uomo: «Piansi a quell’immagine che in anticipo sui secoli vedevo scomparire dal nostro mondo». C’è però ancora un tentativo, c’è ancora una possibilità di trovarla, quella figura dell’Uomo, e di posticiparla, quella tragedia incombente: un ritorno al passato. Per dire addio a questa figura: «Adoperai cursus del Vecchio Testamento, calchi neo-novecenteschi, e profetai, profetai una nuova Preistoria».
Ecco allora che si immerge Nel Vangelo secondo Matteo, per poi passare alla letteratura antica con Edipo Re e Medea. Se prima vi erano ancora le lucciole da poter raccontare con Accattone e Mamma Roma, ora invece sembra si debba far riferimento alla grande antica bellezza. E si sente questo suo bisogno, si sente una ricerca di vitalità nella trilogia, che non a caso è proprio definita Trilogia della vita, nei primi anni ‘70. Rifugiandosi nelle storie conosciute da Boccaccio, alle Mille e una notte fino a Chaucer, si cerca una via di fuga dal potere omologante, si cerca di provocare, di far ridere, far riflettere, di vivere come in un sogno. Ma è proprio durante la realizzazione della Trilogia della vita che la sua vera opera, vale a dire la sua stessa vita, inizia a cambiare.
Il ripiegamento finale su di sé e la tragedia imminente
Sembra esserci un punto di non ritorno quando nell’estate del 1971 Ninetto Davoli, attore, collaboratore e suo amico, si fidanza e decide di sposarsi. Ninetto Davoli è la personificazione dell’Italietta, la personificazione della spontaneità della vita, dell’innocenza del mondo paleocapitalistico: era l’amore platonico. Nonostante tutta la realtà si stesse omologando, la vera e propria dimostrazione di quanto già da tempo analizzava e denunciava si concretizza, realisticamente, solo con l’abbandono di Ninetto. Il suo matrimonio viene considerato come il suo ingresso in quella società borghese che porta alla contaminazione di una delle anime più pure: «Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili».
Si arriva quindi alla parte decostruttiva della sua opera di vita. Ci si avvicina alla tragedia. La raccolta Trasumanar e organizzar considera la poesia come modo per pensare, come montaggio lessicale, improvvisato e talvolta trascurato, in cui l’ideologia si intreccia con l’autobiografia. Quest’ultima risplende esplicitamente nelle poesie dell’Hobby del sonetto, che assume un vero e proprio valore intimistico. L’Uomo Scomodo crede di essersi svegliato come da un sogno, e di realizzare veramente la dura realtà. Nonostante il dolore del risveglio, la vita continua, rifugiandosi in quello che sapeva fare meglio. Ormai solo, apocalittico e corsaro, ripensa a sé e alla sua vita, ed essendo questa un’opera d’arte, la scrive. Con Petrolio, l’esperienza della scrittura diventa esperienza di vita e non più di vitalità. Una vita della quale vorrebbe liberarsi, come afferma nell’appunto 99, idea che viene ripresa parlando di questa sua ultima opera come di un testamento. La morte lo affascina, Oriana Fallaci dirà addirittura che lui fosse innamorato della morte. D’altronde se rimaneva sempre valido il suo pensiero per cui: «La morte non è più nel non poter comunicare ma nel non essere compresi», il fascino per essa diventava ora totale.
Ogni volta avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: – Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!-. Avrei voluto gridarti che non avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu.
O. Fallaci, Lettera a Pier Paolo, Pasolini un uomo scomodo, Milano, Rizzoli, 2015, pp. 58-59.
Sei sopravvissuto alla morte dimostrandoci che l’arte e la vita come capolavoro possano essere veramente eterne. E la tua tragedia, infatti, è per sempre. Buon compleanno Uomo, buon compleanno Pier Paolo Pasolini.
Autore
Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.