In un paese transfobico, la priorità di Valditara è tenere la schwa lontana dalle scuole

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Lo scorso 21 marzo, tramite una circolare inviata a tutte le scuole, il ministro dell’istruzione Valditara ha esortato a non usare asterischi e schwa nelle comunicazioni scolastiche ufficiali. La decisione è stata presa in seguito ad alcune segnalazioni da parte dell’utenza scolastica, che hanno servito al ministro un’occasione per ribadire che “la lingua giuridica e burocratica non è sede adatta per sperimentazioni innovative che portano alla disomogeneità e compromettono la comprensione dei testi”.

Una simile posizione viene rafforzata qualche settimana dopo con le prime indiscrezioni sulle Indicazioni Nazionali previste per le superiori nel biennio 2027/2028, nelle quali il  ministro si pone “in difesa della lingua contro asterischi e schwa” che a parer suo causano “svalutazione della grammatica, della sintassi, delle regole”.

Da un punto di vista giuridico, in Italia l’uso di asterischi, schwa, chiocciole o altri elementi grafici non è consentito nei documenti ufficiali, dal momento che il nostro ordinamento riconosce esclusivamente i due sessi biologici e le parole usate non possono in alcun modo essere equivoche, pena l’inattendibilità dell’atto o della legge in questione. Persino da un punto di vista grammaticale l’impiego di un linguaggio inclusivo non è considerato corretto, specie dopo le posizioni fortemente contrarie dell’Accademia della Crusca espresse nel 2023 in risposta ad una domanda avanzata dal Comitato Pari Opportunità. Dunque l’ammonimento di Valditara del 21 marzo sembra confermare l’attuale posizione delle istituzioni in merito al linguaggio inclusivo.

Eppure, se da un lato il ministro dell’istruzione e del merito ribadisce qualcosa che si sapeva già, dall’altro si ha l’impressione di voler disincentivare l’uso del linguaggio inclusivo anche in contesti meno formali, con la pretesa di difendere la lingua italiana dal rischio di modifiche più o meno invadenti. Tuttavia, quel che non si considera quando si ha a che fare con questioni di questo tipo, è che le lingue rispecchiano la società in cui sono in uso e, come tali, sono dotate di una struttura che si evolve in simbiosi alle esigenze dei parlanti.

Alcune di queste nuove esigenze, per esempio, vengono esternate dalla comunità lgbtqia+ e da quella transfemminista, che rintracciano nell’uso del maschile sovra-esteso dei riflessi dei caratteri patriarcali della società, nonché dei grossi limiti per tutte le persone che non rientrano nel binarismo di genere. Tra l’altro, pensare di introdurre un termine neutro non è un’idea totalmente illogica o inattuabile, in parecchie lingue – come l’inglese, il tedesco, le lingue slave e addirittura il latino – esistono parole e suffissi genderless.

È pur vero che un cambiamento di questa portata non può essere “imposto” in modo prescrittivo, dato che i mutamenti linguistici sono “carsici e lentissimi” e si applicano solo se usati con consuetudine, come ricordano Silvia Costantino e Francesco Quatraro in un articolo pubblicato anni fa per L’Indiscreto. Tuttavia, nello stesso articolo, Costantino e Quatraro suggeriscono comunque di dare una chance ai suffissi neutri dal momento che “[se dovessero funzionare] avranno vita lunga, altrimenti si esauriranno”.

Il punto non è tanto capire se e come si può modificare il linguaggio, quanto cercare di capire perché questo ipotetico cambiamento sia così temuto dal ministro dell’istruzione e dalle destre in generale: lo stesso Salvini si è più volte schierato contro i fantomatici eccessi del politicamente corretto, così come il vicepresidente della Camera Rampelli e tanti altri. A tal proposito, risultano estremamente esplicative le parole di Brigitte Vasallo – scrittrice e attivista spagnola che, nel suo Linguaggio inclusivo e esclusione di classe, cerca di capire chi è che nei fatti produce il linguaggio stabilendone norme e chiavi interpretative. Come si evince dal titolo stesso, Vasallo riporta al centro del discorso il concetto di classe collocandolo come “fatto […] attraversato da tutto il resto: la razzializzazione, il genere, l’origine, le abilità” e quindi attraversato implicitamente anche  dal linguaggio. Ecco perché sostiene che, per poter valutare l’attuazione di un linguaggio inclusivo, bisognerebbe prima tener conto dei contesti egemonici su cui si costruisce il pensiero di una collettività, pensiero plasmato anche tramite il controllo di mezzi di comunicazione, espressioni artistiche e istruzione.

In sintesi, chi controlla l’uso della parola controlla anche i concetti che da essa derivano e, sia nel passato che nel presente, questo controllo è appartenuto ad una ristretta élite politico-culturale di stampo patriarcale, colonialista e classista. Non è un caso, infatti, che le destre stiano improntando una crociata contro la schwa con il pretesto di difendere la grammatica italiana. E di certo non è un caso che questa battaglia venga affrontata in ambienti formativi come scuole e università, d’altronde come la stessa Vasallo ricorda “il disagio tra il linguaggio normativo e l’emancipazione di genere non appartiene al campo della linguistica, ma quello della politica”. In questo senso provare ad impiegare parole genderless – anche se non sempre di facile pronuncia e anche se non ammessi dalla grammatica italiana – significa “[riconquistare] il potere sulla nostra lingua attraverso la tensione dei suoi usi illegali”. Inoltre, l’uso della schwa non si figura come mera soluzione ad un problema, bensì come strumento per denunciare il disagio di una fetta di popolazione, diventando un elemento di protesta per cercare di attirare l’attenzione su questioni finora ignorate. 

Sulla politicizzazione della lingua insiste molto anche Vera Gheno, sostenendo come le sue varianti inclusive non tolgano nulla al lessico ma, anzi, costituiscano un arricchimento. A tal proposito, insiste sulla relazione che intercorre tra parole ed esistenza. Si tratta di un aspetto indagato da diversi filosofi e linguisti: Heidegger stesso affermava che il linguaggio è ciò che rende ontologicamente presenti le cose al mondo, Wittgenstein gli faceva eco dicendo che i limiti del nostro linguaggio sono anche i limiti del nostro mondo. In parole semplici, se non si riesce a descrivere a parole un concetto o un oggetto è come se questo non esistesse, dato che il linguaggio è il filtro tramite cui l’esperienza percepisce e comprende la realtà. 

Gheno si aggiunge al discorso sostenendo che “non è che ciò che non si nomina non esiste, ma è vero che ciò che non si nomina si vede meno”. Se qualcosa non è immediatamente visibile non risulta di facile comprensione e, dunque, fatica ad essere accettato: è quello che capita alle persone non binarie, transessuali, omosessuali e queer dal momento che, non esistendo suffissi giusti per indicarli o parole adatte in cui identificarsi, vivono in una condizione di assoluta invisibilità. 

Rileggendo le parole di Valditara, alla luce di quanto detto, la sua lotta alla difesa della grammatica assume dei connotati ben precisi: disincentivare l’uso di terminologie inclusive serve a delegittimare l’esistenza di realtà diverse da quelle basate sul binarismo di genere. Insistere in modo particolare in ambienti accademici e scolastici, può avere delle pesanti ripercussioni su studenti e studentesse appartenenti al mondo lgbtqia+. Ciò che spesso si dimentica è che la popolazione scolastica è composta da persone in piena adolescenza, una fase delicatissima della vita, dove ci si ritrova a fare i conti anche con la propria identità sessuale, ma anche con forti fenomeni di discriminazione: secondo l’associazione Gay Center, il 35% degli studenti lgbt subisce discriminazioni a scuola – 1 su 4 subisce persino bullismo fisico e psicologico – mentre oltre il 25% della popolazione scolastica conserva forti pregiudizi sull’omosessualità.

Secondo la filosofa statunitense Iris Marion Young questi fenomeni di violenza sono riconducibili all’esistenza di una relazione di dominio/subalternità culturale ai danni delle persone lgbtqia+, perpetrati a causa di quegli ostacoli – anche linguistici – che impediscono l’accesso all’interpretazione e alla comunicazione del sé. Young definisce questo fenomeno come imperialismo culturale il cui effetto principale è che “delle persone LGBT+ non si parli (in modo serio, rispettoso, informato) e, al contempo, si parli troppo (attraverso le battute e gli insulti)”.

Autore

Classe ‘98. Sono meridionalista, femminista e antifascista. Mi piace disegnare, scrivere e girare per musei. Ah, e ho una fissa per i film con protagonisti in crisi da quarto di secolo.

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