La società della performatività ci obbliga non solo a produrre in maniera costante e frequente, ma anche a essere originali. Nelle nostre menti il concetto contemporaneo di imitazione sembra ormai corrispondere al sinonimo di contraffatto, fasullo, manipolato. La paura di essere copiati – così come quella di copiare qualcun altro – è un pensiero che ha attraversato ognuno di noi almeno una volta nella vita: chi sono io davanti a qualcuno che mi copia? L’originale o l’impostore? E chi sono io quando copio qualcun altro?
Agenti o pazienti dell’imitazione, questa ci rende ancora più vulnerabili di fronte all’altro, mina la nostra identità e la mette in discussione. Ma che cos’è la nostra identità se non il risultato di mille altre identità, gesti, immagini e parole di qualcun altro?
Nell’aprile 2024 è uscito nelle sale cinematografiche il film Challengers di Luca Guadagnino, dramma sportivo incentrato sul tennis i cui costumi sono stati curati dal designer irlandese Jonathan Anderson, direttore creativo della casa di moda Loewe. Gran parte delle aspettative rivolte alla pellicola sono state alimentate dalla campagna promozionale portata avanti dal cast indossando alcuni capi originali, tra cui una t-shirt con su la scritta «I TOLD YA» (‘te l’avevo detto’) firmata Loewe e presente anche nel film. Il capo in questione copia letteralmente la maglia indossata negli anni Novanta da John Fitzgerald Kennedy Jr., ispirata allo slogan elettorale del padre durante le presidenziali statunitensi del 1961. Quanto possiamo ancora definire originale qualcosa che, di fatto, già esiste?
Eppure, risulta indiscutibile la genialità di questa decisione creativa non solo a livello di marketing, ma anche dal punto di vista artistico. Come ha spiegato lo stesso designer, infatti, l’iconica foto di John Kennedy Jr. con indosso quella maglia mentre gioca con il proprio cane a frisbee rappresenta uno status sociale e uno stile di vita che ci raccontano meglio di qualsiasi script cinematografico la storia dei personaggi: chi sono, da dove vengono e a cosa aspirano.
A differenza di oggi, nella cultura classica la mimesi rappresentava l’essenza artistica: secondo gli antichi greci, l’arte consisteva nella capacità di imitare e riprodurre il più fedelmente possibile la natura circostante; l’artista era il mimetés, ovvero, l’imitatore. Fu Platone con la dottrina delle idee a condannare la rappresentazione artistica a mera imitazione dell’imitazione, ritenendo che la realtà fosse già a sua volta copia delle vere essenze (o idee) contenute nell’iperuranio. Furono poi i romani, abili nel creare giustificazioni, a ideare la prassi dell’aemulatio: la reinterpretazione di modelli preesistenti volta al miglioramento attraverso l’introduzione di elementi innovativi (come fece Virgilio con l’Eneide tenendo presente strutture e contenuti dei poemi omerici, per intenderci). È questa pretestuosa forma mentis che ha contribuito a formulare la concezione occidentale secondo la quale ci è concesso ‘prendere’, ‘alludere’, ‘citare’ purché lo si faccia con l’intento di ‘modificare’, ‘evolvere’ e ‘innovare’.
Oggi l’accusa di mancata originalità in un qualsiasi prodotto creativo (dalla moda alla letteratura) sembra presupporre mancanza di competenza e dunque di legittimità. Ma è davvero così?
Dal momento in cui nasciamo il nostro assetto genetico ci rende inclini all’imitazione come strategia di adattamento tra simili. Per esempio, i neonati sviluppano la capacità di muovere volontariamente i muscoli del viso e della lingua solo dopo il primo anno di vita, ma già mezz’ora dopo la nascita se si fa la linguaccia a un neonato, il bimbo sarà capace di replicarla. Come è possibile?
Nel suo manuale Neuropedagogia delle Lingue, il professor Franco Fabbro descrive questo comportamento come «uno schema imitativo complesso codificato nella specie umana a livello genetico». Questa innata capacità imitativa fa parte di una serie di processi alla base del fenomeno di contagio, ossia, la tendenza umana a propagare un comportamento da un individuo all’altro. Anche a livello linguistico accadono le stesse cose: quando frequentiamo nuovi gruppi di persone non di rado iniziamo a fare nostre espressioni verbali, intonazioni e caratteristiche vocali dei nostri interlocutori. La motivazione psicologica che soggiace a questo comportamento, detto accomodazione vocale, risiede nel desiderio di accettazione, coinvolgimento e partecipazione all’interno di un gruppo sociale. In poche parole, possiamo dire che l’imitazione è uno dei tanti linguaggi non verbali che utilizziamo per comunicare.
E che cos’è un atto creativo se non un esasperato tentativo di comunicazione? Qualsiasi prodotto artistico veicola un significato con l’intento di essere compreso da altri esseri umani. Come sarebbe possibile suscitare emozioni, empatia o comprensione senza evocare realtà, immagini o suoni che i nostri destinatari non abbiano già sperimentato in prima persona? Il nostro sistema neurologico è geneticamente codificato per rilevare somiglianze e, attraverso queste, comprendere l’altro. Come dimostrato dai ricercatori dell’università di Parma alla fine del secolo scorso, infatti, esiste una tipologia di neuroni, definiti neuroni specchio, che si attivano sia nello svolgimento di un’azione motoria sia quando il soggetto osserva la medesima azione compiuta da un altro individuo. Il funzionamento del cosiddetto sistema-specchio a livello neurologico ci svela molto dei comuni processi cognitivi che mettiamo in atto ogni giorno quando ci relazioniamo con il mondo esterno: come i neuroni specchio si attivano nell’individuare azioni o gesti altrui di cui riconoscono la finalità, così la nostra mente riconosce e ricerca il simile nelle esperienze umane. È a partire da questi sistemi neuronali, infatti, che è possibile motivare processi cognitivi come l’empatia.
Sull’importanza dell’imitazione nei processi creativi è stato spesso interrogato il designer Alessandro Michele che nel 2017, allora direttore creativo della casa di moda Gucci, rilasciò un’intervista a Vogue affermando: «tutto quel che mi ispira e che cito, che sia di ieri o di quattro secoli fa, mi accade nello stesso momento davanti agli occhi, quindi è presente. È il mio presente, è la mia contemporaneità, ed è la sola cosa che posso e voglio raccontare». Richiamare, alludere, citare o imitare quello che già conosciamo è un meccanismo insito nell’essere umano in quanto animale sociale; è ciò che in semiotica si definisce ipertestualità, ossia, la capacità di un testo (inteso come qualsiasi porzione di realtà dotata di significato) di richiamare un altro o più testi.
Alla luce di ciò, dovremmo riconoscere che per ogni processo creativo ci troviamo davanti a una necessità quasi fisiologica di emulazione. Questo non vuol dire che ciò che produciamo sia privo di una sua originalità, di un suo significato e di un valore intrinseco, ma che il processo imitativo rappresenta un istinto sociale umano.
Copiamo da quando nasciamo, conosciamo copiando, ci relazioniamo al mondo copiando, dunque, dovremmo accogliere questo comportamento come un normale processo di formazione. Come spesso ripete la scrittrice e matematica Chiara Valerio: «in un mondo in cui pare che l’originalità sia il valore assoluto invece, forse, la memoria e l’immaginazione sono il valore assoluto». Reimmaginare infinite possibilità attraverso la memoria è ciò per cui il nostro cervello è predisposto: tutto ciò che immaginiamo è, per forza di cose, già visto. Forse non in quella forma, non in quell’ordine, non in quel tempo e con quelle esatte parole ma è esistito e noi ne abbiamo fatto, in qualche modo, esperienza. Così la t-shirt di JFK Jr. oggi diventa un costume di scena che ci racconta un mondo.
Autore
Elena Tronti
Autrice
Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.