La Twitter revolution: tweet e retweet per provare a cambiare la storia

0% Complete

Vi sono molte espressioni, modi di dire o parole specifiche che non necessitano di essere spiegate perché tutti ne colgono, seppur a grandi linee, il significato. Tra queste, è possibile annoverare anche quella di Twitter revolution per indicare, in termini molto generici, il contributo della piattaforma al sovvertimento di assetti politici. Che ci piaccia o meno, è opportuno prendere atto che Twitter contribuisce ormai da più di un decennio alla costruzione dello spazio pubblico (e soprattutto politico) contemporaneo.

Basti pensare che Donald Trump, presidente degli USA dal 2017 al 2021, lo ha utilizzato per 12 anni e ha pubblicato quasi 60mila tweet, ottenendo nel tempo circa 89 milioni di followers. Nei suoi quattro anni da presidente, Trump lo ha usato per annunciare e commentare qualsiasi cosa: dai propri ordini esecutivi agli ascolti dei programmi televisivi, dai retweet con immagini e video spesso offensivi verso avversari politici e minoranze alla pubblicazione di notizie false. Twitter ha bloccato il suo account in maniera permanente a gennaio 2021, poco dopo l’attacco al Campidoglio degli Stati Uniti da parte di una folla di sostenitori di Trump, mobilitati dallo stesso ex Presidente americano per cercare di ribaltare l’esito delle elezioni presidenziali del 2020. Anche in quel caso, per l’uso frenetico della piattaforma che ne fecero i rivoltosi e Trump stesso, si parlò di Twitter revolution, anche se con accezione negativa.

Twitter blocca in modo permanente l'account di Donald Trump. Lui replica:  "Valutiamo di usare una nostra piattaforma" - Il Fatto Quotidiano
Ecco come appariva l’account Twitter di Trump il giorno della sua sospensione permanente, l’8 gennaio 2021.

Il termine nacque però ben 12 anni prima, in Iran, durante le elezioni presidenziali del 2009. Cosa indicava nel 2009 il termine Twitter revolution? Una rivoluzione realmente avvenuta grazie alla piattaforma? O semplicemente un enfatico termine giornalistico?

12 giugno 2009: una vittoria sporca di sangue

Quel giorno, infatti, in Iran si tennero le elezioni presidenziali che sancirono la vittoria del Presidente uscente Ahmadinejad. L’opposizione, guidata dall’ex primo ministro (carica abolita in Iran nel 1989) Mir-Hosein Musavi, contestò immediatamente i risultati del voto, denunciando brogli e scendendo in strada. Le proteste e le manifestazioni nelle piazze vennero represse duramente dalla polizia e dalle forze paramilitari schierate al fianco del Presidente.

Mahmud Ahmadinejad, il vincitore contestato delle elezioni presidenziali del 2009, rimarrà in carica fino al 2013.

Gli scontri raggiunsero il loro apice quando una giovane iraniana, Neda Agha-Soltan, venne uccisa nella capitale, a Teheran. I video amatoriali che riprendevano la sua morte si diffusero velocemente nel web per poi raggiungere i media mainstream di tutto il mondo, rendendo il volto della giovane donna il simbolo della lotta del popolo iraniano. Una lotta che venne presentata alternativamente come “rivoluzione verde”, in riferimento al colore utilizzato da Musavi e dai suoi sostenitori nel corso della campagna elettorale, o “Twitter revolution”, in riferimento al ruolo cruciale che la piattaforma avrebbe avuto nella diffusione delle informazioni relative alla protesta.

Sesto giorno di protesta: Musavi tra i suoi sostenitori. I braccialetti verdi indossati dai manifestanti richiamano il colore usato dal loro candidato nella campagna elettorale.

La centralità di Twitter nella protesta

La piattaforma creata da Jack Dorsey divenne una protagonista delle proteste post-elettorali in Iran attraverso due eventi. Il primo rimanda a un messaggio inviato il 15 giugno dall’ex primo ministro Musavi agli amministratori di Twitter, in cui si chiedeva di non sospendere il servizio. Il contenuto del testo è abbastanza chiaro da trasmettere la drammaticità della situazione e non necessita di ulteriori commenti.

Il secondo evento, di maggiore complessità quanto al controllo circa la veridicità, fa riferimento a un messaggio fatto pervenire lo stesso 15 giugno a Jack Dorsey dal dipartimento di Stato americano nel quale si chiedeva di rinviare l’aggiornamento del server previsto per il giorno successivo. Il 16 giugno, infatti, era in programma un aggiornamento del server che avrebbe interrotto l’accesso alla piattaforma nel paese. La richiesta di rinvio delle operazioni di manutenzione della piattaforma venne accolta dalla società di Dorsey, che argomentò la scelta sostenendo che «gli eventi in Iran erano strettamente connessi con l’affermarsi di Twitter come fondamentale canale di comunicazione e informazione».

Negli stessi giorni a Teheran, continuavano le manifestazioni

Entrambi i messaggi, e soprattutto il loro contenuto, sostengono la lettura che pone Twitter innanzitutto come centrale per la diffusione di informazioni relative all’Iran, e poi come competitor dei media tradizionali del paese, inizialmente poco attenti alla protesta e comunque in parte controllati dal regime. Le vicende relative alle proteste in Iran portarono addirittura Mark Pfeifle (ex consigliere per la sicurezza nazionale degli USA) a proporre la candidatura di Twitter al premio Nobel per la pace, sostenendo che «il popolo iraniano, senza Twitter, non si sarebbe sentito forte e sicuro nella difesa della libertà e della democrazia».

Le perplessità sull’effettiva importanza del social network

In un tale clima non stupisce affatto che per la prima volta, spinti da un eccessivo ottimismo, molti osservatori parlarono di Twitter revolution, esagerando sia la portata destabilizzante per il regime di quei sollevamenti della società civile, sia il ruolo che il social network avrebbe avuto nel sostenere quelle azioni. Effettivamente tramite Twitter venne costruito il racconto della protesta iraniana, prontamente ripreso dai media tradizionali a corto di materiale a causa delle rigide direttive del regime circa gli spostamenti nel paese.

Riconoscere che Twitter possa aver fornito materiale di prima mano nella copertura delle vicende iraniane non equivale però, ad attribuirgli un ruolo decisivo nel sostegno della protesta. Perplessità al riguardo furono espresse quando le manifestazioni vennero brutalmente represse ed emerse una situazione del paese diversa da quella che si era immaginata, soprattutto sul versante dell’ampiezza e dell’articolazione del coinvolgimento della popolazione nella rivolta.

Una società di monitoraggio del web, Syomos, pubblicò i dati relativi all’attività su Twitter nei giorni cruciali della protesta dai quali emergeva che solo il 23,8% dei tweet pubblicati proveniva dall’Iran, sostenendo, in pratica, che ben due terzi di ciò che era circolato nella twittersfera era frutto di retweet o di tweet prodotti fuori dal paese. A riguardo, il commentatore politico Golnaz Esfandiari, in un articolo pubblicato su Foreign Policy nel 2010, dichiarò che tra gli utenti più attivi in occasione delle principali manifestazioni tenutesi in Iran ne conosceva ben tre: «uno viveva negli Stati Uniti, un altro in Turchia e il terzo, quello che più spesso sollecitava la popolazione ad andare nelle piazze, aveva la sua base in Svizzera».

Sostenitori di Musavi durante una protesta a Teheran

Accanto a questa lettura che ridimensionava fortemente il contributo degli iraniani al flusso comunicativo #iranrevolution, se ne diffuse un’altra che iniziò a sottolineare come l’attribuzione della funzione di coordinamento della protesta alla piattaforma avesse prodotto interventi repressivi da parte del governo iraniano.

La repressione

La repressione della protesta viene attuata dall’organizzazione paramilitare del Basij, che soffocò sia le manifestazioni pacifiche che quelle violente, usando manganelli, spray al peperoncino, bastoni e, in alcuni casi, armi da fuoco. Le autorità iraniane sigillarono le università a Teheran, censurano i siti web più utilizzati, e bloccarono le comunicazioni tramite cellulare (chiamate vocali e SMS). In poche parole, il governo iraniano usò la tecnologia a suo favore per monitorare gli utenti di Internet e i loro messaggi, rendendo più semplice la sorveglianza, la disinformazione e la repressione dell’intera protesta.

Un membro delle milizie Basij durante una protesta a Teheran il 15 giugno 2009

Pochi mesi dopo Amnesty International affermò che il numero dei morti nel corso delle contestazioni fu almeno il doppio di quello riconosciuto dal regime (le autorità contarono 40 morti) e stimò che oltre 5000 persone furono arrestate, sottoposte a tortura e maltrattamenti. Secondo Amnesty International furono comminate anche decine di condanne a morte. Nella seconda metà di novembre e nella prima settimana di dicembre oltre 90 studenti furono arrestati ed espulsi dal loro ateneo per impedire loro di proseguire gli studi ed evitare la ripresa delle manifestazioni. Nei mesi successivi il governo iraniano represse ulteriori manifestazioni di protesta e bandì dal paese 60 istituzioni straniere, tra cui mezzi di informazione e organizzazioni per i diritti umani.

Il 9 giugno 2010 Amnesty International pubblicò un secondo rapporto, nel quale denunciava il perdurare delle violazioni dei diritti umani in Iran a un anno dalle elezioni presidenziali. Alla fine del 2010, di quel movimento di protesta senza precedenti, non era rimasto quasi più niente.

Poliziotti e manifestanti iraniani a Teheran, vicino al ministero dell’Interno, 13 giugno 2009

Quindi, fu vera rivoluzione?

Insomma, uno sguardo più attento consente di cogliere elementi e sfumature che gettano una luce diversa sul contributo di Twitter alla cosiddetta “rivoluzione verde”. È vero che non ha senso parlare di Twitter revolution in senso stretto, ma è altrettanto vero che quell’esperienza ha fatto emergere significative novità ed evoluzioni tanto sul fronte dell’organizzazione che della comunicazione.

Non vi è dubbio, infatti, che molti cittadini iraniani abbiano utilizzato la piattaforma per trovarvi o condividere informazioni su ciò che stava avvenendo nelle piazze, così come è innegabile che il flusso comunicativo abbia consentito alla protesta di acquisire visibilità e notiziabilità in tutto il mondo. Numerose furono le manifestazioni di solidarietà internazionali verso il popolo iraniano, con giornali come il New York Times che si schierarono a favore della protesta, così come personalità di spicco del mondo della musica, dell’arte e dello sport. Per la prima volta la diffusione delle informazioni non avvenne più tramite il tradizionale passaparola, ma tramite tweet e retweet che si rincorrevano, e venne costruito un flusso comunicativo che diede vita a un’ibridazione continua tra broadcast media (come le tv) e social media.

Certamente non ci fu alcuna rivoluzione in Iran grazie a Twitter (si consideri che Ahmadinejad restò Presidente della Repubblica islamica dell’Iran fino alla scadenza naturale del suo secondo mandato nel 2013), lo ripetiamo.

Una sostenitrice di Musavi con lo slogan delle proteste del giugno 2009, «Dov’è il mio voto?», a Teheran. Musavi è da circa 10 anni agli arresti domiciliari.

Questa sorta di normalizzazione del contributo di Twitter non deve però far dimenticare che, in quelle settimane, i manifestanti e i sostenitori di Musavi riuscirono a produrre e comunicare informazioni soprattutto attraverso il social network.

L’ esperienza iraniana ha rappresentato inoltre il punto di partenza per l’avvio di una riflessione sulle nuove forme di azione politica e sulle nuove modalità organizzative e comunicative della società contemporanea, attratta in maniera irreversibile dal social di microblogging più famoso del mondo. Un social che, ancora oggi a distanza di un decennio, viene usato per dare, in modo sicuramente enfatico, il nome a varie proteste nazionali; ultima in ordine cronologico quella negli Stati Uniti del gennaio 2021.

Autore

Odio le cose non finite. Le cose o si fanno bene o non si fanno proprio. Io non le faccio proprio. E infatti sono una contraddizione vivente: da grande vorrei diventare attore, non ho mai fatto un provino in vita mia. Adoro il cinema, la tv, lo spettacolo, ma sono laureato in lettere moderne. Sono nato e vivo a Roma, ma tifo Inter da una vita. La cosa che mi ha colpito di più di Generazione: il loro differenziale su Instagram.

Collabora con noi

Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine

Se pensi che Generazione sia il tuo mondo non esitare a contattarci compilando il form qui sotto!

    Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

    Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

    Chiudi