Dandora, o l’Inferno che Dante scriverebbe ai nostri giorni: un viaggio tra i gironi della discarica più grande dell’Africa orientale

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Entrare in una discarica è un’esperienza terribile. Entrare in una discarica in Africa, dove per i primi 100 metri si pestano unicamente marche di caramelle americane è avvilente. Entrare nella discarica di Dandora, la discarica più grande di tutta l’Africa orientale è, invece, infernale. E l’unica guida possibile non è più la ragione, ma una scorta di polizia.

«Aspra e forte che nel pensier rinova la paura», la discarica di Dandora è un labirinto indefinito: non vi è un vero inizio e non vi è una fine. Anche perché, come si fa a dare un inizio ed una fine ad una materia infernale, che non segue alcuna ragione se non quella del male? Eppure, ed ecco la particolarità strabiliante di Dandora, come ogni labirinto che si rispetti, la sua struttura è impeccabile. Esattamente come nell’inferno dantesco, in cui le anime dei dannati urlano, bestemmiano, maleodoranti e sporche, con il vento che «di qua, di là, di su, di giù le mena», allo stesso tempo i gironi sono rispettati, la struttura che scende sempre di più verso gli abissi è ordinaria e ordinata. È tutto controllato da un Minosse che qui si chiama «chief», mentre l’animale mostruoso Cerbero, che controlla l’ingresso, qui è diventato un terribile e grosso uccellaccio, il Marabù. E il nostro Caronte è un poliziotto della scorta, che sorride come se fossimo in paradiso.

L’interno della discarica. Foto di Paola Viola.

La discarica di Dandora si trova in Kenya, nella periferia di Nairobi. Definita satura, Dandora è la più grande discarica dell’Africa Orientale: si tratta di chilometri quadrati di immondizia e, quindi, di un immenso posto di lavoro per le persone che vivono al suo interno o in prossimità. La discarica si affaccia, infatti, su due slums: Dandora, da cui prende il nome, e Korogocho, diventando l’unico mezzo di sostentamento per la base di una scala sociale che tende ad andare sempre più in alto, dimenticandosi che, alle sue fondamenta, ci siano tanti dannati che vivono di spazzatura. L’aumento della popolazione, la mancata differenziazione dei rifiuti e un sistema altamente corrotto della sua gestione hanno comportato un notevole aumento della superficie della discarica, che cresce e brucia sempre di più. E questo diventa, paradossalmente, un vantaggio, sia per chi ha interessi economici importanti, e sia per chi debba trovare una via di fuga per arrivare alla fine della giornata. Ma per fare tutto questo, per accontentare, paradossalmente, ricchi e poveri, c’è bisogno di un capo.

L’interno della discarica. Foto di Paola Viola.

«Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia». L’enorme area è controllata e suddivisa proprio da un Minosse chiamato chief. Capo di appezzamenti del terreno, decide dove e cosa debbano fare le anime dannate. Ha il pieno potere nel proprio girone infernale. Come si diventa Minosse in questo posto infernale? Mi viene detto che l’unico modo per sceglierlo dipende dal suo livello di pericolosità: chi ha ammazzato di più diventa chief.

Divisa, quindi, in aree di influenza, ognuna con il proprio caporale, la popolazione che lavora o vive in discarica (perché ci sono anche persone che ci vivono in maniera stabile) può adempiere a due compiti principali: ricercare un unico materiale richiesto (questi sono appunto definiti “i cercatori”) o differenziare alcuni materiali per il “riciclaggio”. Parlando con uno dei poliziotti della scorta, mi viene detto che sono la Cina e l’India quelle maggiormente interessate a ricomprare plastica, cartone e vetro a prezzi stracciati. Segue l’alluminio.

E lo Stato? Cosa ha fatto dopo aver dichiarato la discarica come satura? In questa storia, lo Stato non è Lucifero, non è il male assoluto. Qui sembra essere meglio rappresentato dalle anime del limbo. Dopo aver chiesto più volte la sua chiusura, lo Stato si concede unicamente il controllo sull’azione delle ruspe, che dovrebbero servire ad agevolare il processo di riciclaggio.

L’ingresso della discarica, con le ruspe nello sfondo. Foto di Paola Viola.

Lo Stato, qui, sono tanti ignavi di vedetta, che spostano e muovono pezzi di storie, oggetti, vestiti, plastica colorata, materiali elettrici ed elettronici, come automi. Non c’è decisione, non c’è volontà. Rimangono in funzione per un’apparente sembianza di utilità. Ma cosa ci potrà mai essere di utile in un posto come l’inferno? Quello che inferno non è: la vita.

Ci sono le famiglie, c’è il lavoro e c’è addirittura una chiesa. Ci sono i lavoratori, le lavoratrici e tanti bambini. Forse c’è anche un po’ d’amore e di amicizia, chissà. O forse no, forse non esiste alcun Paolo e Francesca, forse la lussuria costa troppo, in un luogo dove si guadagnano circa 150-200 scellini al giorno. Circa un dollaro e mezzo.

Eppure, la vita è stata incontrata, perché la vita ha un nome, come J., il bambino conosciuto lì.

Il primo incontro con J., prima di uscire dalla discarica per iniziare un percorso di scolarizzazione con l’associazione SmileyHand – Una mano per un sorriso. Foto di Paola Viola.

J. ha occhi grandi e labbra carnose. Il suo labbro inferiore sanguinava un poco. Il collo era lungo e teso in avanti, come se fosse abituato a guardare in giù per cercare il materiale con cui mantenersi. Tono di voce basso, mani sporche, unghie sfigurate. Le narici sono larghe, la pelle presenta alcuni piccoli pallini, come delle pustoline: quasi sicuramente si tratta di vermi. Il dente davanti è scheggiato, ma questo lo avrei capito solo dopo, quando, fuori di lì, mi avrebbe sorriso per la prima volta. Perché Dandora è un inferno che non conosce fine, è vero, ma è anche una possibilità di redenzione. Perché, rispetto all’inferno, qui di vita ce n’è. E la vita offre sempre una possibilità.  

Quel bambino è venuto via con noi, «E quindi uscimmo a riveder le stelle».

Autore

Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.

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