I processi di decolonizzazione non possono essere giudicati dall’Occidente

La rivoluzione algerina come paradigma di liberazione

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La solidarietà per il popolo palestinese è cresciuta negli ultimi anni, ma sembra ancora difficile abbracciare la causa quando si tratta di decolonizzare la Palestina, legittimando la sua resistenza armata. La storia insegna che nessun popolo colonizzato si è liberato senza lotta: il processo di decolonizzazione dell’Algeria è un esempio cruciale che dimostra come la violenza coloniale lasci come unica risposta la contro-violenza rivoluzionaria. Pensare alla colonizzazione della Palestina al di fuori di questa logica significa cadere in una visione parziale e coloniale della solidarietà.

Raccontare la resistenza algerina significa collocare la lotta palestinese all’interno della più ampia storia dei processi di decolonizzazione del XX secolo, in quanto rappresenta un paradigma fondamentale per comprendere le dinamiche del dominio coloniale e la necessità della contro-violenza come unica risposta rimasta al colonizzato contro la violenza strutturale del colonizzatore. È fondamentale riconoscere la continuità tra i metodi repressivi delle potenze coloniali europee e le pratiche attuali di occupazione in Palestina, restituendo così una prospettiva realmente decoloniale e non limitata a categorie morali imposte dall’Occidente.

La lotta per l’indipendenza algerina contro i colonialisti francesi è stata una delle rivoluzioni anti-imperialiste che hanno più ispirato il Sud globale e i popoli oppressi che hanno subito il dominio imperialista occidentale. L’approccio che i coloni israeliani hanno da sempre applicato in Palestina, colonizzando la terra, espropriando terreni e distruggendo case, è esattamente lo stesso che è stato perpetrato dalla Francia nei confronti dell’Algeria. La Francia incoraggiò attivamente la colonizzazione dell’Algeria: in una dichiarazione del 1840 il maresciallo francese Bugeaud disse: “Ovunque ci sia acqua dolce e terra fertile, lì si devono collocare i coloni”. Nel 1954 il numero di coloni in Algeria si aggirava intorno al milione.

La popolazione rurale algerina ha resistito combattendo direttamente l’esercito coloniale francese, gli sforzi però sono stati soppressi definitivamente nel 1871. Le rivolte contadine sono il risultato di una serie di violenze da parte dei coloni francesi, il tutto aggravato dalla siccità, carestia e malattie che causarono la morte di mezzo milione di algerini.

Il dominio coloniale francese in Algeria durò 132 anni. Nel 1881 l’Algeria fu amministrata per la prima volta come parte integrante della Francia, discriminando gli algerini sotto la terribile legge Code de l’Indigénat del 1881, che escludeva completamente la popolazione musulmana.

L’8 maggio 1945, mentre l’Europa celebrava la fine della Seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo, in Algeria la popolazione colonizzata manifestava per la fine del dominio coloniale francese iniziato nel 1830. A Sétif, nel nord del paese, circa quattromila persone scesero in piazza per reclamare l’indipendenza, sventolando la bandiera algerina, allora proibita. La risposta del generale francese Duval fu quella di aprire il fuoco sui manifestanti uccidendo migliaia di civili disarmati. Seguì l’ennesima repressione violenta delle forze d’occupazione francesi contro i civili algerini, che chiedevano la fine del dominio coloniale. I manifestanti in quell’occasione brandirono per la prima volta quella che sarebbe poi diventata la bandiera del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN).

In quell’episodio persero la vita 103 europei, scatenando una rappresaglia feroce contro la popolazione algerina: i villaggi intorno a Sétif, Guelma e Kherrata vennero bombardati e dati alle fiamme, con stime delle vittime che arrivano a decine di migliaia. La logica della punizione collettiva non fu un caso isolato ma una pratica strutturale del dominio coloniale per cui la morte di un europeo spesso scatenava ritorsioni immensamente più violente contro civili indigeni, per riaffermare la supremazia bianca e spezzare ogni volontà di resistenza. 

Il generale israeliano che guidava l’intelligence militare il 7 ottobre 2023 disse all’emittente televisiva Channel 12 che devono morire 50 palestinesi per ogni israeliano ucciso e che «non importa se sono bambini». Aharon Haliva affermò che i civili uccisi a Gaza erano un costo «necessario» come «messaggio alle future generazioni» di palestinesi. «Hanno bisogno di una Nakba ogni tanto per rendersi conto del prezzo», ha aggiunto, riferendosi all’espulsione di massa di oltre 700.000 palestinesi dalle loro case e terre dopo la creazione di Israele nel 1948.

Dopo il 7 ottobre 2023, infatti, la risposta israeliana ha assunto lo stesso carattere punitivo e collettivo: bombardamenti continui su Gaza, colpiti scuole, università e ospedali, l’obiettivo non era più solo quello di vendicarsi dei combattenti di Hamas, ma la punizione di un intero popolo che rivendica l’autodeterminazione. Ancora oggi, gli attacchi palestinesi vengono spesso rappresentati come pura violenza, cancellando oltre settant’anni di occupazione e apartheid.

I massacri dell’8 maggio 1945 da parte dell’esercito d’occupazione francese segnarono una svolta decisiva per il movimento nazionalista algerino: la via pacifica era ormai finita e la lotta armata diventò inevitabile. Quelle stragi traumatizzarono un’intera popolazione e spinsero il popolo algerino a scegliere la rivoluzione armata come unica strada per la liberazione, dopo il fallimento di numerose dimostrazioni pacifiche.

Le lotte di liberazione del Novecento non furono processi isolati, ma parte di un unico movimento globale contro l’imperialismo. L’allora recente sconfitta francese in Vietnam, nel 1954, diede fiducia ai leader del Fronte di Liberazione Nazionale algerino, mostrando che la potenza coloniale poteva essere sconfitta. Come spiegò Frantz Fanon, la vittoria del popolo vietnamita a Dien Bien Phu non fu solo un successo militare confinato al Vietnam, ma la dimostrazione concreta che i popoli colonizzati potevano produrre la violenza rivoluzionaria necessaria per imporre la decolonizzazione ai loro oppressori: «Dal luglio 1954, la domanda che i popoli colonizzati si sono posti è stata: “Cosa bisogna fare per realizzare un altro Dien Bien Phu?”» (Fanon, I dannati della terra, 1962).

L’oppressione coloniale si manifesta con continuità nei metodi di controllo e annientamento dei popoli sottomessi: nel tentativo di mantenere il controllo su Gaza, Israele usa gli stessi metodi brutali usati dai francesi in Vietnam e in Algeria, tra cui la fame imposta alla popolazione civile. L’uso del cibo come arma trasforma l’intera popolazione in un bersaglio, sempre secondo la logica della punizione collettiva.

Queste pratiche si accompagnavano a un processo di disumanizzazione dell’“altro”, necessario per giustificare la violenza coloniale che oggi vediamo materializzarsi in Palestina: la narrazione continua a descrivere i palestinesi con epiteti disumanizzanti per legittimare violenze, torture e massacri, un processo di razzializzazione tipica del colonialismo.

Le rivoluzioni anticoloniali in Algeria e in Vietnam hanno segnato profondamente la politica e il pensiero dei movimenti di liberazione del Novecento. Dalla guerra d’indipendenza algerina sono emerse figure che hanno incarnato la resistenza e continuano a ispirare le lotte del presente, in particolare quella palestinese. Tra queste figure troviamo Djamila Bouhired, simbolo della ribellione contro l’oppressione coloniale. Partecipò agli attentati del FLN durante la battaglia di Algeri; fu catturata, torturata e condannata a morte, poi graziata. Il suo lascito fu che nessuna esecuzione avrebbe fermato la libertà dell’Algeria. Al suo fianco, Zohra Drif, anch’essa combattente e parte della rete armata del FLN, fu imprigionata per vent’anni e divenne una voce di riferimento per la memoria rivoluzionaria.

La lotta per la liberazione è un’idea che risuona tra tutti i popoli oppressi e va al di là dei suoi leader e dei suoi volti noti: nonostante la perdita dei suoi principali leader – come Ali La Pointe, Hassiba Ben Bouali e i loro compagni, uccisi nel 1957 – il Fronte di Liberazione Nazionale algerino non fu sconfitto. La liberazione non è mai l’opera di un individuo, ma la manifestazione collettiva di un popolo oppresso che rifiuta la propria sottomissione. Finché esisteranno persone sotto occupazione, l’idea di libertà continuerà a rinascere, anche dopo l’assassinio dei suoi leader.

Allo stesso modo, non bisogna dimenticare che il colonialismo non si sostiene solo attraverso gli eserciti o i governi: i coloni stessi ne sono parte attiva. In Algeria, come in Vietnam, i civili europei applaudirono e collaborarono con le forze militari che reprimevano le rivolte. Oggi accade lo stesso in Palestina, dove gran parte della società israeliana appoggia apertamente la guerra su Gaza e partecipa al progetto coloniale di cancellazione di un intero popolo.

La decolonizzazione della Palestina non potrà dirsi compiuta finché non finiranno occupazione, apartheid e colonizzazione. Come in ogni lotta anticoloniale, i popoli che resistono vengono marchiati come “terroristi”, mentre la violenza dei colonizzatori continua a essere giustificata come difensiva. È tempo di smettere di equiparare la violenza di chi si ribella all’oppressione con quella di chi la impone.

«Ci è stato detto che la violenza, in sé, è malvagia e moralmente ingiustificabile, qualunque sia la causa. Ma con quale criterio morale si può paragonare la violenza di uno schiavo che spezza le proprie catene alla violenza del suo padrone? Con quale misura possiamo equiparare la violenza dei neri, oppressi e repressi da quattro secoli, a quella dei fascisti bianchi? La violenza che mira a riconquistare dignità ed eguaglianza non può essere giudicata con lo stesso metro della violenza che serve a mantenere discriminazione e oppressione». ( Walter Rodney, The grounding with my brothers, 1969)

Le lotte di liberazione algerina e palestinese condividono l’esperienza del colonialismo d’insediamento. I palestinesi hanno visto nella rivoluzione algerina un modello di riferimento, così come gli algerini hanno riconosciuto nella resistenza palestinese il riflesso della propria lotta contro l’imperialismo francese. L’esperienza del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) ha ispirato i palestinesi sia nella strategia della lotta armata, sia nell’unificazione delle diverse fazioni politiche sotto un’unica causa.

Dopo l’indipendenza nel 1962, l’Algeria è diventata un punto di riferimento per i movimenti rivoluzionari del Sud globale, accogliendo e sostenendo cause anticoloniali da tutto il mondo, soprattutto quella palestinese. Nel 1965 la Palestina Liberation Organization (PLO) aprì la sua sede ad Algeri, trovando in Algeria il sostegno per la lotta contro l’occupazione israeliana.

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