La difficile storia d’amore tra Burberry e i coatti

Il famoso pattern beige di Burberry è probabilmente uno dei simboli più famosi della moda: ricopre giacche, sciarpe, cappelli e cinture. È iconico, riconoscibile e identitario. E proprio a causa di queste sue fortunate caratteristiche, nei primi anni 2000, il colosso della moda inglese ha dovuto evitare che il fenomeno giovanile dei chav prendesse il controllo sulla fama del brand.

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Burberry è considerato oggi uno dei più eleganti e raffinati brand di lusso. E su questo ci si trova d’accordo senza troppe polemiche: basti pensare all’intramontabile linearità delle sue collezioni o alle palette di colori mai esagerate che fa sfilare in passerella. Il fortunato brand inglese, nato a Basingstoke nel 1856, ha saputo costruire la sua coerente identità nel corso della sua storia grazie a quell’aria un po’ british delle collezioni che tanto affascina chi british non è, ma soprattutto grazie al famosissimo motivo tartan che ricorre con ossessione da quasi 100 anni. Considerato come uno dei simboli più riconoscibili del fashion, fa il suo debutto negli anni Venti: una tinta color crema di sfondo e linee bianche, nere e rosse (quest’ultime -attenzione! – più sottili delle altre) che si intersecano in una indimenticabile geometria. Se nei primi anni questo pattern foderava solo l’interno dei trench, negli anni Ottanta esce allo scoperto, andando a decorare da quel momento in poi in tutte le collezioni del brand camicie, polo, cappelli, cinture e chi più ne ha più ne metta. Ma così come tanti identificano il pattern di Burberry quale “elegante”, “tradizionale”, “elitario” o “di benessere”, altrettanti lo descrivono come “coatto”. Per alcuni significa buon gusto, per altri l’opposto contrario. Questo perché il pattern, a un certo punto della sua storia, finì vittima della sua stessa spropositata popolarità.

Daniella Westbrook per le strade di Londra

Il fenomeno dei ‘chav’: i coatti di quartiere che indossavano i cappelli Burberry

Nel dettaglio, siamo nel 2002 e l’attrice inglese di soap opera Daniella Westbrook viene fotografata in compagnia di sua figlia mentre indossano entrambe un total look pattern Burberry. E non c’è scampo nemmeno per il passeggino, diabolicamente abbinato. La foto, che fece il giro di tutti i giornali, divenne una specie di barzelletta nazionale e con essa lo divenne il brand Burberry. La foto ridicolizzava, infatti, l’immagine di raffinatezza, classe ed eleganza che il brand cercava di mantenere vigile. Ma come se non bastasse, questa foto era solo la punta di un iceberg ben più grande che inizia con il termine ‘chav’ e continua con gli hooligans.

Se è vero che nel corso degli anni 2000 erano le tantissime aspiranti modaiole, ricoprendosi da testa a piedi del pattern (apripista, appunto, Daniella Westbrock), a far sembrare il brand sempre più cheap, problema ancora più grande arrivava, però, dalla classe sociale inglese dei ‘chav ’, primo grande nemico del brand.

Per L’Oxford English Dictionary, il termine ‘chav ’ indica dispregiativamente un “giovane caratterizzato da comportamenti rozzi e rumorosi, solitamente legato a un basso stato sociale”. Volendo esplicitare il tono dispregiativo di cui questo termine è carico, basterebbe leggere la definizione che ne dà Urban Dictionary: “piccoli, rissosi e irritanti coglioni che vanno di notte a caccia di prede per le strade della Gran Bretagna del Nord. Questi piccoli roditori territoriali possono essere visti mentre mettono incinte tredicenni, mentre rubano dal tuo garage, mentre passeggiano per strada grattandosi le palle e indossando capelli di Burberry urlando ‘we teste di cazzo!’” Insomma, per dirla all’italiana, sarebbero i coatti del quartiere che fanno comitiva sui muretti con la tuta di Sergio Tacchini e le Air Force One rosse. E nel momento in cui per la sottocultura chav è importante l’ostentazione della marca e la possibilità di farsi riconoscere sotto l’ombrello di un brand name, il pattern di Burberry, per la sua immediata riconoscibilità e iconicità, era uno degli strumenti più efficaci di questa appartenenza, al di là del fatto che i capi fossero veri o falsi. E la foto di Daniella Westbrock ammantata del tartan beige sanciva l’appropriazione da parte dei chav di quell’uniforme, strappata a chi fino a quel momento apparteneva, cioè a personaggi di grande spicco. Il cattivo gusto dei chav in ambito stilistico faceva della fantasia di Burberry la propria bandiera.

Le violente tifoserie degli ‘hooligans’

Il viaggio nella sfortunata storia del pattern di Burberry continua poi con la relazione che instaurò con le tifoserie calcistiche più violente del calcio inglese, quelle degli hooligans, che adottarono – tra sciarpe e cappelli – la famosa fantasia come divisa ufficiale. E mentre il brand scendeva dalla passerella ed entrava negli stadi (ma soprattutto negli scontri fuori dagli stadi), l’opinione della gente nei confronti di Burberry mutava senza che il brand potesse opporvisi. Il pattern che si trovava involontariamente associato alla sottocultura dei chav, veniva in parallelo ora associato a un comportamento anti-sociale e violento come quello degli hooligans. L’associazione fu di tale portata che numerosi erano i luoghi nel Regno Unito che vietavano l’ingresso a chiunque indossasse la famosa fantasia, temendo spiacevoli, rumorose o violente infiltrazioni. Indossare una bandana Burberry avrebbe sicuramente fatto successo nella villa in Sardegna di Berlusconi, ma non avrebbe fatto lo stesso effetto, ad esempio, in qualche bar inglese. Cronaca alla mano, la società “The Barracuda Group”, che gestiva più di 150 pub nel Regno Unito all’epoca dei fatti, bandì l’ingresso ai propri locali ai clienti il cui abbigliamento rimandava ai gruppi più violenti degli hooligans. Ça va sans dire, il pattern di Burberry era tra questi. Caroline Nodder, portavoce del noto gruppo di pub, diceva: “Stiamo lavorando insieme alla polizia per stilare una lista di marchi di vestiti in voga tra le gang che ci hanno in passato causato dei problemi”. È – non a caso – del 2003 la notizia di una donna a cui non è stato permesso di entrare in un pub di Aberdeen, in Scozia perché portava con sé un ombrello e una borsa con il pattern in questione, e dell’anno dopo due casi analoghi in due diversi pub di Leicester. Probabilmente la classica casalinga inglese credeva che Burberry sarebbe stato il brand indossato da chi l’avrebbe scippata nella periferia di Londra. L’associazione a uno stile di vita sregolato e violento assestò un pugno in pieno volto alla già vacillante fama del brand.

In modo repentino e senza la possibilità di controllare questa sinestesia, il brand diventa vittima del suo stesso successo e della sua stessa possibilità di rappresentare uno status sociale. L’associazione con i chav e con gli hooligans ebbe in termini d’immagine un effetto disastroso per la casa di moda: nei primi anni Duemila, Burberry perse totalmente il controllo sulla percezione che il pubblico aveva dell’identità del brand. Non più un bene di lusso ma una fantasia saturata dall’uso che ne avevano fatto le classi meno raffinate della società inglese. E questo influì anche sulle vendite: nel 2004 il The Telegraph confermava un calo delle vendite del 40% rispetto all’anno precedente e tutta una conseguente storia di merce invenduta.

In che modo Burberry ha salvato la sua fama

Due anni più tardi, nel 2006, la direzione del brand inglese decide che è il momento di affrontare il problema a viso scoperto: a Rose Marie Bravo succede Angela Ahrendts come CEO di Burberry e si trova a dover gestire il negativo ritorno sulla fama del brand. Con l’aiuto di Christopher Bailey, divenuto direttore creativo del brand nel 2001 metteranno a segno i colpi vincenti per il restauro dell’identità del marchio. Come primo passo, Bailey riporta la fantasia all’interno dei capi, com’era in origine, eliminando dalla passerella qualsiasi riferimento al pattern beige. Successivamente organizza una vasta e costosa campagna pubblicitaria per risollevare l’immagine del brand, come l’epico catwalk show per presentare la prima collezione senza pattern, quella smacchiata dalle poco felici associazioni. L’occhio vigile di Angela Ahrendts – che le ha permesso nel solo 2012 un guadagno di 17 milioni di sterline e la fama di una dei boss più pagati d’Inghilterra– ha permesso al brand di salvarsi dalla reputazione di “cappelli indossati in discoteca” e lo ha traghettato verso quel meraviglioso e irraggiungibile immaginario che oggi noi tutti abbiamo del brand, cioè come uno dei più elitari. L’azione di Angela Ahrendts e Bailey fortificò talmente tanto il nome del brand che già nel 2014 Burberry poté di nuovo riportare nelle proprie collezioni il pattern iconico. La cattiva fama ormai era lontana. A sancire la fine di questo brutto incubo, sarà la collezione maschile del 2018, nella quale Christopher Bailey (che dopo 17 anni al timone abbandonerà il brand) tornerà a manifestare nuovamente con orgoglio il suo amore per il pattern di Burberry, portando (riportando) in passerella quelle stesse sciarpe, cappelli e cinture che 13 anni prima avevano condannato il brand. I tempi erano infatti di nuovo maturi: quella fu la collezione più venduta della storia del marchio inglese.

In questo modo Burberry tornò ad essere di nuovo cool ed ecco perché nessuno si imbarazza più nell’indossarlo.

Autore

Samuele Vona

Samuele Vona

Direttore Editoriale

Nasco a Roma e amo le cose démodé: se scatto lo faccio in analogico, compro solo libri usati, scrivo ancora con la penna (blu) e ho una laurea in Lettere Moderne. Desidero una nuova bicicletta perché quella di prima me l'hanno rubata.

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