Architettura per la nostra memoria

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Insieme all’abitare, la creazione di edifici per la commemorazione è uno dei più antichi scopi dell’architettura. In tal modo, l’architettura ha costruito, nella cultura delle civiltà antiche, un legame materiale fra l’uomo terreno ed il divino. È partendo da questo concetto che si basa larga parte della narrazione moderna e contemporanea riguardo il tema dell’architettura della memoria, considerando il luogo del ricordo non rilevante per le sue qualità dovute alla materiale oggettivazione, piuttosto per il valore simbolico che incarna. Citando gli studi di Alois Riegl, storico dell’arte vissuto nella seconda metà dell’800, fra i più primordiali esempi di monumento è quello che lui definisce il monumento intenzionale, ovvero un’opera eretta a simbolo di uno specifico evento o persona, il cui scopo principale è mantenere viva l’immagine per le future generazioni. Che l’architettura rappresenti un’espressione della cultura umana intimamente legata alla celebrazione della memoria è tuttavia, nel suo tempo, già un concetto pressocché consolidato. È a John Ruskin, anch’esso storico e critico d’arte inglese, che tendenzialmente riconosciamo il concetto di architettura come memoria del lavoro umano, una memoria sociale e collettiva che, usando le parole di Victor Hugo, fa dell’architettura “il grande libro dell’umanità”.

Il 27 gennaio il mondo celebra il giorno internazionale della memoria, commemorando le vittime della Shoah e ricordando l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz avvenuto nel 1945, e con esso la liberazione quindi del più grande campo di sterminio nazista. Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Majdanek, sono solo alcune della tombe delle vittime innocenti uccise durante la Seconda guerra mondiale. È necessario, oggi come domani, avere un promemoria costante di questi orrori, per conoscere i fatti, adottarli e riflettere sulle terribili conseguenze dell’Olocausto. 

La Seconda guerra mondiale ha plasmato la nostra sensibilità all’etica della memoria e ha cambiato radicalmente la nostra comprensione nei confronti della memoria collettiva. Recuperare una memoria storica della guerra oggi, con lo scorrere del tempo e la scarsità di testimonianze viventi, diventa un’operazione ancora più complessa. Sempre più importante diventa quindi la capacità di architetti ed artisti nel formare una rappresentazione utile del passato, per mantenere viva l’informazione degli accaduti, dare una speranza verso il futuro e creare nuovi strumenti di umanità possibile per le future generazioni. La domanda è, quindi, come si può ricordare un orrore? Come conservare la memoria di qualcosa che preferiremmo dimenticare? Nel corso della seconda metà del 900, l’arte e l’architettura hanno saputo rispondere in modi diversi, lasciandoci strumenti per comprendere, fare esperienza e costruendo un dialogo con le atrocità della Shoah, e mantenendo sempre viva e costante la sua memoria.

Architettura come strumento di informazione

Fondato nel 1933 e chiuso dai nazisti solo cinque anni dopo, il museo Ebraico di Berlino riapre nel 1975, attraverso il contributo della comunità ebraica della città. È Daniel Libeskind l’architetto selezionato per l’ampliamento ed il ripensamento della struttura. Tuttavia per il progettista il museo rappresenta molto più che una semplice commissione: si tratta infatti di ristabilire e garantire un’identità della città di Berlino, ormai persa dagli anni della guerra. In questo senso, l’architettura è per lui uno strumento di narrazione da fornire ai visitatori, per fare esperienza degli effetti dell’Olocausto, ma anche per ristabilire e spiegare una connessione fra le due culture – ebraica e tedesca. Morfologicamente, Libeskind afferma che il progetto prende forma da una stella di David estesa intorno al contesto. Per entrare nel nuovo ampliamento bisogna passare attraverso un corridoio sotterraneo: il visitatore deve quindi sopportare l’ansia di nascondersi e perdere il senso dell’orientamento prima di arrivare a un bivio di tre percorsi. C’è quindi un’intenzione didascalica ed al contempo partecipativa nei percorsi generati, i quali permettono di testimoniare l’esperienza ebraica attraverso la continuità con la storia tedesca, l’emigrazione dalla Germania e l’Olocausto. L’interno è composto da cemento armato caratterizzato da vuoti e spaccature che generano frammenti di luce nello spazio. È un contesto simbolico, afferma Libeskind, che permette i visitatori di sperimentare la sensazione degli ebrei deportati, oppressi e schiacciati dalla gravità dei campi di concentramento, in cui uno spiraglio di luce è l’unico elemento materiale di speranza.

L’installazione Shalekhet (Fallen Leaves) di Menashe Kadishman nel museo ebraico di Libeskind a Berlino

Memoria collettiva attraverso l’esperienza individuale

Il memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa, progettato da Peter Eisenman, architetto americano con origini ebraiche, è probabilmente fra le rappresentazioni più efficaci dell’esperienza dell’Olocausto. Caratterizzato da una struttura reticolare rigida composta da 2.711 pilastri di cemento con altezze da 0 a 4 metri, il progetto manifesta l’instabilità insita in quello che sembra essere un sistema e il suo potenziale di dissoluzione nel tempo. Suggerisce infatti – afferma Eisenman – che quando un sistema apparentemente razionale e ordinato diventa troppo grande e sproporzionato rispetto allo scopo previsto, perde il contatto con la ragione umana. È, infatti, disagio e smarrimento quello che l’architetto vuole provocare nei visitatori: non solo l’idea della lapide è intrisa nei pilastri, ma è anche il senso di perdita, di isolamento e oppressione ad insistere sulla forma del ricordo. Sono molte le interpretazioni che la popolazione ha dato al memoriale: per molti i pilastri rappresentano un cimitero, le forme ed il colore sono il simbolo della perdita di identità durante il regime nazista, o ancora la denuncia di un senso di colpa collettivo affidata alla struttura del memoriale. Ciò che è certo dalle dichiarazioni dell’architetto è la volontà di creare un contesto senza nostalgia, senza memoria del passato, solo memoria viva dell’esperienza individuale.

Denkmal für die ermordeten Juden Europas, Peter Eisenman, Berlino (1998-2005)

L’arte della Resistenza oggi

Qual è il senso che assume oggi la memoria affidata ai monumenti? Cosa ha ancora motivo oggi di essere conservato? Sono queste alcune delle domande che ci chiediamo negli ultimi anni sul tema del monumento e della memoria, questioni che hanno portato gli attivisti del movimento Black Lives Matter a contestare le icone colonialiste negli Stati Uniti o ad imbrattare, con la scritta “razzista stupratore”, il monumento dedicato ad Indro Montanelli a Milano. In questo contesto si distingue quindi il progetto di rivisitazione del frontone dell’ex Casa del Fascio di Bolzano, opera che si propone di generare un dialogo e consapevolezza della storia, piuttosto che della sua distruzione. L’ex Casa del Fascio conserva, infatti, sul suo frontone un bassorilievo di Hans Piffrader, con al centro il duce a cavallo, su cui spicca il motto fascista “Credere, obbedire, combattere”. Nel 2017, in contrapposizione a tale motto, il fregio viene sottoposto a un intervento artistico di depotenziamento e contestualizzazione, opera degli artisti Arnold Holzknecht e Michele Bernardi. “Nessuno ha il diritto di obbedire” è la storica frase attribuita ad Hannah Arendt – politologa e filosofa tedesca di origine ebraica, a lungo impegnata sui temi della critica al totalitarismo e delle stragi dell’Olocausto –, sovrapposta al bassorilievo tuttora presente, come simbolo di memoria e di dialogo per le future generazioni. Nella piazza sono poi stati posti punti informativi sull’edificio ed il suo bassorilievo, l’opera di contestualizzazione e la frase di Hannah Arendt.

Ex Casa del Fascio, Bolzano

Quello che identifichiamo col nome di memoria è un concetto che più di altri ha dovuto subire il corso del tempo, assumendo quindi significati e forme diverse. L’arte e l’architettura sono quindi anche servite come mero strumento per mantenere innanzitutto intatto il suo fondamento nella storia, garantendo poi un certo grado di libertà interpretativa provocata dall’esperienza individuale, che apre all’interrogativo e così all’impegno morale. La dimensione propriamente monumentale e didascalica del ricordo si rivela quindi inadatta alla memoria della Shoah e i progetti di Libeskind ed Eisenman, aprendosi a linguaggi più dialogici e partecipativi, sono un esempio adeguato. Conseguentemente, l’opera di Bolzano viene a testimoniare, oggi più che mai, l’importanza di adottare gli strumenti del nostro tempo, attraverso i quali le testimonianze di chi ha vissuto, subìto e combattuto le angosce dell’Olocausto, hanno modo di essere sperimentate, ma soprattutto testimoniate. E, per la nostra e le future generazioni, solo così la memoria è il ricordo anche di chi non ha mai sentito, né lontanamente provato: memoria oggi è informazione, è dialogo, è resistenza.

Autore

22 anni e mezzo, mezzo architetto, mezzo pianista. Dopo il liceo classico, il conservatorio, un anno a Rotterdam ad infornare pizze, trascorro tre anni fra Roma, Dortmund e Torino dove mi laureo in architettura al Politecnico. Mi interesso particolarmente di pianificazione urbana e politiche territoriali e sogno una carriera nella ricerca. Per ora sono a Londra, domani chissà.

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