Günther Anders ci ha insegnato che oggi nel mondo dell’informazione contano più le opinioni dei fatti

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Nel suo capolavoro del 1956, L’uomo è antiquato, Günther Anders ha messo sotto accusa e demolito il paradigma della “neutralità” del mezzo tecnologico: dal suo punto di vista non si può determinare il valore di uno strumento solo giudicando come viene utilizzato, poiché ogni mezzo, tecnologico o non, si fa portavoce di un insieme di significati e procedure pratiche a prescindere dal suo utilizzo. Per semplificare: un coltello può essere usato per minacciare qualcuno oppure per tagliare una torta ad una festa, ma in entrambi i casi dovrò stare attento a non tagliarmi nel maneggiarlo; se tenessi in mano un quaderno o un portachiavi probabilmente agirei con maggiore distrazione.

Anders aveva compreso che l’innovazione tecnica contemporanea, conseguenza di un progresso scientifico che evolveva in termini esponenziali, non poteva essere considerato uno strumento neutro. Al di là degli esiti escatologici che l’autore tedesco ne derivava, va riaffermato questo principio con forza: se per un europeo degli anni ’50 si poteva ancora parlare (forse) di sguardo profetico, oggi non si può essere tanto miopi da continuare a professare “l’indifferenza assiologica” degli strumenti. È evidente che la tecnologia contemporanea ha stravolto le relazioni sociali, i costumi, la comunicazione politica, il mondo del lavoro, la percezione della realtà moltiplicando la velocità dell’esistenza individuale e collettiva. In fondo, Anders non ha fatto altro che applicare una categoria molto interessante della Logica di Hegel in cui si dice che ad una variazione quantitativa corrisponde una variazione qualitativa. Hegel aveva negato così l’idea dell’assoluta distinzione tra quantità e qualità: si immagini una persona in buona salute e la si faccia ingrassare ipoteticamente di 70 chili: l’aumento eccessivo di chili dell’individuo non produrrebbe una semplice variazione di peso, ma determinerebbe (o potrebbe determinare) un cambiamento qualitativo, per esempio la perdita dello stato di buona salute o l’emergere di problemi di deambulazione. Per Hegel non si possono pensare grandezze quantitative astratte, ma si deve dire che “la quantità stessa è una qualità”.

Ed in fondo un abnorme incremento quantitativo ha prodotto rispetto alla tecnologia una epocale trasformazione qualitativa. Su questo ci viene in aiuto Pasolini, che aveva compreso gli effetti disumanizzanti del nesso tra neocapitalismo elitario ed apparati tecnologici innovativi: per l’intellettuale italiano il nuovo capitalismo mondiale degli anni ’60 e ’70 mostrava un volto più arcigno dei precedenti perché si stava dimostrando capace di rispondere, attraverso l’utilizzo di tecnologie ramificate in ogni ambito del reale, proprio a quelle richieste di uguaglianza e di emancipazione delle masse di cui si nutriva ogni forma di socialismo. Sfruttando l’innovazione scientifico-tecnologica e funzionalizzando un certo tipo di liberalismo, il neocapitalismo mondiale riusciva a proporsi come nuovo “liberatore” delle masse dall’oppressione della povertà, della fame e della marginalizzazione. Pasolini aveva capito che il nuovo capitalismo mondiale, attraverso un incremento quantitativo della capacità tecnologica, stava procedendo ad un’evoluzione qualitativa fenomenale; stava inglobando incredibilmente in sé stesso la tradizione socialista e marxista realizzando concretamente i suoi obiettivi ideologici (riassumibili, volendo, nel miglioramento delle condizioni di vita delle masse di lavoratori). Non è un caso che il marxismo evolva progressivamente verso forme di social-democrazia e perda completamente la sua vocazione rivoluzionaria.

Verrebbe da chiedersi a questo punto cosa c’entri tutto ciò con il mondo dell’Informazione attuale. È evidente che la più volte citata enorme variazione quantitativa abbia interessato anche lo spazio della produzione di informazioni mondiali promuovendo una strutturale variazione qualitativa. Abbiamo già rifiutato il concetto di neutralità dello strumento tecnico, si rifiuti recisamente ora la semplicistica riflessione sull’Infosfera globale come mero aumento quantitativo della capacità di produrre informazioni rispetto ai sistemi precedenti. Oltre ad essere incredibilmente superficiale, tale comprensione del fenomeno non rende merito per nulla del cambiamento epocale che si sta realizzando e che si potrebbe sintetizzare, forse un po’ ruvidamente, con l’espressione “perdita di spessore ontologico della realtà”.

Non si vuole con questo negare che il sistema di comunicazione capillare che si nutre del triangolo televisione, telefonia mobile e social network non abbia comportato un miglioramento o un’accelerazione della trasmissione di comunicazioni, bensì si vuole indicare come tale crescita iperbolica abbia trasformato radicalmente la struttura stessa del mondo contemporaneo. Non si vuole nello stesso tempo portare acqua al mulino di anacronistici conservatori o nostalgici di una fantomatica purezza spirituale arcaica, piuttosto si pretende di portare all’ordine del giorno una riflessione seria sulla pervasività degli strumenti di comunicazione attuali. Questioni come la proprietà dei dati, le tasse per i grandi oligopoli, la privacy digitale o i dibattiti sulla regolamentazione dei sistemi informatici mondiali o sulla disuguaglianza socio-economica e culturale generata da un differente accesso ai servizi digitali devono essere affrontati.

Ma si ritorni all’indicazione della perdita di spessore ontologico della realtà. L’onnipervasività del momento tecnologico-digitale, oltre ad aver accresciuto quantitativamente le nostre possibilità di comunicazione, ha prodotto una generalizzata distanza, che rischia di farsi frattura, con la realtà spazio-temporale che siamo abituati a chiamare mondo. Portando a radicalizzazione un’istanza della filosofia contemporanea, per cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, il mondo tecnologico-digitale si è frapposto tra ognuno di noi ed il reale come piano di mediazione necessario dissolvendo in questo modo il primato ontologico dei fatti ed affermando quello delle opinioni, delle interpretazioni. Un esempio clamoroso di tutto ciò solo il dilagare dei negazionismi più idioti o del problema delle “fake news”. L’elemento fondamentale alla base di tali degenerazioni è proprio la perdita di consistenza della realtà empirica che, invece, di essere un “prima”, un “dato”, diviene un “dopo” mediato da un sistema di informazione orizzontale che infinitamente realizza “prodotti” (non più dati).

Se per secoli l’opinione pubblica ha operato analizzando il mondo secondo la categoria della successione, prima le cose, gli avvenimenti, dopo le nostre posizioni in merito ed il dibattito; oggi il sistema dell’informazione mondiale è riuscito a sovvertire tale paradigma e a porsi come un infinito presente dal quale non si può mai uscire. Si è passati, se si vuole, dal modello della successione al modello della simultaneità, dalla categoria di tempo alla categoria di spazio. Ma come ha definito il nostro amato Hegel lo spazio è “l’indifferenza assoluta delle sue dimensioni”, è l’astratta auto-uguaglianza con sé. Difficili formule per dirci che il tempo, almeno quello della vita collettiva (senza scomodare Einstein), vive di momenti determinati non scambiabili, il passato, il presente ed il futuro e mostra un nesso di causalità tra le cose del mondo che rispetta il modello della successione. Lo spazio, invece, mescola tutto, eguaglia tutto e costituisce un’indifferenza assoluta, tanto è vero che gli assi cartesiani che lo definiscono (le famose x,y,z) possono essere ruotati arbitrariamente senza produrre modifiche.

Il mondo dell’Informazione, allora, ha generato uno spazio indifferente in cui tutto viene livellato e prosciugato della sua specificità: nessun nesso di causalità forte tra gli accadimenti e nessuna attribuzione di valore alle cose determinate. Tutto scorre senza ripercussioni come quando si “scrolla” la propria pagina Instagram. Il paradosso più grande è che questo “sovra-mondo” digitale dovrebbe informarci sulla realtà, aiutarci a comprenderla e, invece, evidentemente genera l’opposto: un disancoramento dal reale e una effettiva impossibilità di capire le cose nelle loro relazioni e perciò l’esigenza di uscire dal mondo dell’informazione per fare reale informazione. Paradossale tanto quanto dire che per avere una opinione scientifica devo uscire dal mondo delle scienze. La stessa produzione/selezione infinita di “notizie” può variare a secondo dell’individuo che utilizza il telefono o il pc: come dire, ad ognuno il suo mondo oppure, volendo, dimmi che notizie ti propone Google e ti dirò chi sei. Ma tant’è.

Dalla relazione tra eventi si passa alla loro giustapposizione e la realtà tutta perde di senso. Ricostruire allora questo significato e i nessi profondi che determinano l’evoluzione del reale è il lavoro quotidiano che si impone ad un buon giornalismo o a chiunque voglia provare a capirci qualcosa. Inutile ripetere a questo punto che non esistono strumenti neutri: è incredibile che nel 2021 il compito più importante ritorni ad essere riaffermare il primato ontologico della realtà e dei suoi significati a fronte di un’idealizzazione tracotante e perversa che rischia di sostituirsi alla realtà stessa. Anders lo aveva capito: avere (almeno) un doppione digitale e prendersene cura costantemente non è qualcosa di neutro.

Autore

Classe '94, nato e vivo a Roma. Il mio riferimento culturale è Francesco Totti. Laureato in filosofia per non fare l'ingegnere, detesto la narrazione storica per sentito dire e la verità per acclamazione. Credo nell'utilita del Vecchio e rifiuto ogni forma di messianismo. Tra Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata.

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