Il nuovo capitolo della questione palestinese: ecco perché è impossibile restare indifferenti

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Cerchiamo di fare un po’ di ordine nel fiume incontrollato di notizie che giungono da Gerusalemme. Abbiamo visto bombardamenti, scontri tra civili e forze dell’ordine, repressione e scene di guerriglia urbana. Poi abbiamo confusamente sentito Palestina e liquidato il tutto con un vabbè, lì è sempre così. Nella breve analisi di quanto sta accadendo in questi giorni, però, dobbiamo considerare un dettaglio fondamentale: il carattere unilaterale della repressione.

E se non vogliamo parlare strettamente della questione attuale che ha portato all’ennesimo conflitto – a cui, ovviamente, arriveremo tra poco – si legga solo il dato sulle vaccinazioni: gli israeliani hanno vaccinato il 60% della popolazione e, in quanto forza di occupazione, dovrebbero tutelare anche i palestinesi che vivono nei territori occupati, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ma li ha sostanzialmente esclusi dal piano vaccinale, garantendo, a questi cinque milioni di abitanti, solo l’1% dei vaccinati.

Le violenze che stiamo vedendo in questi giorni hanno la stessa origine. La discriminazione, però, si è manifestata in un altro modo: è stato disposto lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere Sheikh Jarrah.

Una ragazza palestinese davanti una casa decorata con la Stella di David e la bandiera di Israele nel quartiere di Sheikh Jarrah

Sheikh Jarrah: breve storia del quartiere più controverso del mondo

Dunque, uno sfratto come casus belli. Sì, ma la storia è più intricata dell’atto in sé. In che modo si è arrivati a questa decisione da parte del governo israeliano?

Sheikh Jarrah si chiama in questo modo perché, secondo la leggenda, fu il luogo di sepoltura del medico personale di Saladino. In arabo, Jarrah, significa “guaritore”. Nell’Ottocento, poi, il quartiere fu popolato da molte famiglie arabe borghesi, ma è sempre coesistita anche una piccolissima comunità di ebrei, che giustificava lì la sua presenza sempre per un fatto storico: sembra che, in una grotta ai margini del quartiere, vi sia sepolto Salomone il Giusto, il rabbino che accolse Alessandro Magno quando entrò a Gerusalemme. Intorno a fine ‘800 i capi della comunità ebraica acquistarono terreni per rafforzare la presenza dei coloni che, comunque, intorno al 1916, erano poco o meno di cinquanta persone. 

Dopo la guerra del ’48, che portò alla formazione dello Stato di Israele, la linea di confine di Israele, tracciata dall’ONU, passava proprio per il quartiere in questione, che si trova a Gerusalemme Est. Nonostante qualche garanzia concessa ai palestinesi, che dopo la guerra del ’48 erano tornati a vivere lì, lo stato delle cose cambiò: nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, gli israeliani conquistarono militarmente Gerusalemme Est, territorio sul quale ancora praticano il loro controllo. 

Questo rafforzamento dell’esercito israeliano cambia i rapporti di forza: emerge dunque la volontà unilaterale – ancora – di voler espellere i palestinesi da questo posto. La questione torna d’attualità in questi giorni. 

Va considerato poi un altro dato: la legge israeliana permette solo ed esclusivamente agli ebrei di impugnare documenti, ante 1948, volti a dimostrare la legittima proprietà di un’abitazione, anche se lì ci abitano famiglie palestinesi, che quindi si trovano a dover resistere a tentativi sistematici di sfratto. Piccolo aneddoto prima di procedere: 87 palestinesi, che vivevano dal 1963 nel quartiere di Silwan, sono stati recentemente sfrattati. Motivo? Il governo israeliano sosteneva che lì, nel 1938, ci abitavano ebrei yemeniti.

L’operazione “Guardiano delle Mura”

L’escalation violenta ha inizio circa un mese fa. I fattori che hanno aumentato la tensione sono, tra gli altri, almeno tre: l’ordine di sfratto, l’impossibilità per i palestinesi di raggiungere la Porta di Damasco a fine Ramadan (dal momento che la zona è stata blindata, apparentemente, per evitare assembramenti) e la marcia nazionalista degli israeliani per celebrare la presa di Gerusalemme Est, come si diceva prima, del ’67.

La marcia viene vista, legittimamente, come una provocazione dai palestinesi che infatti, già dalla sera prima, si erano barricati nella Spianata delle Moschee per protestare. Proprio lì sono stati colpiti da granate stordenti e proiettili di gomma dalla polizia israeliana, che ha causato molti feriti. 

In questo clima si inserisce Hamas: ai razzi partiti dalla Striscia di Gaza, che hanno causato una trentina di feriti, Israele ha risposto con bombardamenti di 140 obiettivi militari a Gaza. Il bilancio di questo attacco, ad ora, è di 24 morti, tra cui 9 bambini, e centinaia di feriti. 

Cosa possiamo aspettarci ora? Pare non vada esclusa la possibilità di un’invasione, anche via terra, della Striscia di Gaza. Netanyahu è stato chiaro: ha detto che i combattimenti potrebbero «andare avanti per un po’ di tempo», che ha «accresciuto ancora di più la potenza e il ritmo degli attacchi» e che «Hamas riceverà un colpo che non si aspetta».

E il nostro mondo che dice? L’Unione Europea si defila. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, si è limitato a condannare le violenze di ambo le parti e ha invitato alla distensione.

Che in pratica significa: che la mattanza continui.

Autore

Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.

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